Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2016
Parlare dell’inizio della fine della Merkel è prematuro. Anche se fa gola a tanti
Sono giorni difficili per Angela Merkel, fra i più difficili dei suoi undici anni da cancelliere. Comunque lo si guardi, il voto regionale di domenica nel Meclemburgo-Pomerania, il piccolo Land dove ha il suo collegio elettorale, è stato una batosta: soprattutto perché la sua Cdu è scivolata dietro il partito anti-immigrazione dell’AfD e perché il tema pressoché unico della campagna è stata la questione dei rifugiati.
Su questo il capo del Governo tedesco, che per una volta aveva preso una posizione senza tatticismi, si è trovata isolata in Europa, spesso dai suoi alleati storici, e in casa propria, dai suoi alleati attuali. E si trova ora sotto la pressione del nervosismo del suo stesso partito. Quando ci si comincia a interrogare se un leader che era la miglior carta elettorale non stia diventando una zavorra alle urne, nessuna posizione è sicura. Chi ha assistito alla caduta di Margaret Thatcher lo può confermare.
Ma parlare di inizio della fine del cancelliere, come hanno fatto i suoi rivali e come potrebbe essere la speranza inconfessata di qualcuno dei suoi alleati, è del tutto prematuro. Anche perché, a differenza di Margaret Thatcher, alla quale spesso viene, incorrettamente, paragonata, la signora Merkel è un politico di un pragmatismo totale. Sulla questione dei rifugiati ha enunciato un anno fa una posizione con il proclama “Ce la possiamo fare”, ha fallito clamorosamente l’esecuzione delle prime tappe, ha corretto gradualmente il tiro, senza annunciarlo troppo, e anzi ripetendo che la politica resta la stessa. È comunque l’unico leader europeo che ha provato a sporcarsi le mani con un nodo che non è destinato a sciogliersi da solo, né che verrà risolto dai muri, anche se questi, per il momento, hanno fatto comodo alla stessa Germania.
A un anno dalle elezioni che dovrebbero confermarla per un quarto mandato, il cancelliere sa che sui rifugiati sarà sempre sulla difensiva. Per questo la campagna elettorale per le politiche dell’autunno 2017 si è aperta di fatto ieri sul terreno che le è più congeniale, quello dell’economia. «Non siamo mai stati così bene», ha ricordato ai tedeschi il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble. E un Governo che ha fatto del rigore di bilancio la sua bandiera, e che non lo rinnega, anzi pianifica conti in pareggio da qui alla fine del decennio, mette in campo come prima mossa il taglio alle tasse, mirato soprattutto a quei ceti medi e medio-bassi che sono stati il bacino più ampio di cattura di voti di AfD. In più prova a sanare, anche se in misura ancora insufficiente, quel deficit di investimenti pubblici che imprese ed economisti denunciano da tempo.
È impensabile che improvvisamente Berlino diventi in Europa il portacolori dello stimolo fiscale. Nei fatti, però, c’è una correzione di rotta, seppure non enunciata in modo esplicito, che può aiutare la Germania e l’Eurozona. Oltre che le chances elettorali della signora Merkel. La Germania ha più spazio di altri e si è potuta permettere di muovere per prima. Sarebbe importante che su questa scia la discussione in Europa potesse partire dal riconoscimento che, come invoca da tempo il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, la politica monetaria non può fare tutto da sola e che politica fiscale e riforme strutturali devono giocare la propria parte se si vuol fare ripartire una crescita vera. I numeri del secondo trimestre nell’Eurozona e i primi segnali sul terzo dimostrano che ce n’è un bisogno urgente.