La Stampa, 7 settembre 2016
Carlo Lucarelli intervista Fiona Barton, la donna che scrive per fare paura
Quando leggo un bel romanzo, appassionante e ben scritto come La vedova di Fiona Barton (Einaudi), a me restano sempre un paio di cose: la prima è il dispiacere che il libro sia finito, la seconda sono un sacco di domande che vorrei fare all’autore. Comincio subito, allora:
Prima di scrivere romanzi eri una giornalista e ti occupavi di storie vere. Qual è il tuo rapporto con la realtà? E il bagaglio di informazioni che il giornalista accumula nel suo lavoro è una base utile o un peso deviante?
«Potrà sembrare ridicolo, ma per scrivere romanzi ho dovuto smettere di essere una giornalista. L’essenza del giornalismo sta nell’ascoltare, nel fare domande, nel verificare ciò che ci viene detto; dopodiché bisogna saper raccontare una storia con la massima concisione, spesso con meno di cinquecento parole. Per scrivere La vedovaho dovuto disimparare un mucchio di cose. All’inizio è stato difficilissimo: arrivata a diecimila parole pensavo di non avere più niente da dire, ma poi, a un certo momento, ho capito che potevo anche inventare di sana pianta. Un cambiamento di rotta per niente facile, ma al tempo stesso molto liberatorio: finalmente avevo la possibilità di creare il mio mondo.
«Tutt’a un tratto ero libera di decidere quel che i miei personaggi pensavano o dicevano, e non dovevo più semplicemente riferire pensieri o parole di altri. D’altro canto, però, tutto ciò che ho scritto nasce dalle mie esperienze di giornalista: mi hanno messo a disposizione un cast di personaggi assolutamente fantastico».
Ho letto in un’intervista che più che del rapimento di una bambina il tuo romanzo parla della storia di un matrimonio e infatti è così che l’ho letto anch’io. Cos’è allora il thriller, soltanto uno schema narrativo utile per raccontare storie che catturino il lettore?
«Diciamo subito che non sono partita con l’intenzione di scrivere un thriller psicologico o un cosiddetto “noir domestico”. Volevo semplicemente scrivere una storia che mi girava in testa da molto tempo: quella di un matrimonio con alcuni segreti. Ma poiché sono stata una giornalista, forse potremmo dire che tutta la mia carriera è stata una sorta di apprendistato per questo genere di scrittura... A volte capita di aprire il giornale al mattino, mentre si fa colazione in vestaglia, e di leggere storie che fanno rabbrividire, che ti costringono ad alzare la testa per dire a tua moglie o a tuo marito: “Poteva succedere a noi”. Il pubblico ha fame di queste storie, e l’ho sempre trovato perfettamente comprensibile».
La vedovaè il tuo esordio nel romanzo. Quando ti è venuto in mente di scriverlo e come è nata l’idea che sta alla base della storia?
«La vedova è nato da un’immagine e da una voce. L’immagine era quella di una moglie seduta in tribunale, che sente ricostruire con dovizia di dettagli – anche ripugnanti, a volte – il crimine di cui suo marito è accusato. Da giornalista, ho seguito molti casi in cui la moglie dell’imputato era una presenza anonima e silenziosa, ai margini della vicenda principale: mi sono sempre chiesta cosa sapessero, o cosa avessero il coraggio di sapere, quelle mogli».
La vedovaè scritto in un modo molto complesso, con continui spostamenti su piani temporali diversi e attraverso diversi punti di vista. Perché complicarsi la vita in un mondo, come quello del thriller, che è già complicato di per sé?
«Ah ah! Il fatto è che non scelgo mai le soluzioni facili... Volevo rivolgermi direttamente al lettore come avevo sempre fatto nella mia carriera di giornalista, e all’inizio avevo pensato di raccontare la storia da un unico punto di vista: quello di Jean. Ma poi ho capito che avevo bisogno di più voci, per riferire al lettore quello che succedeva al di fuori del mondo claustrofobico di Jean. È stato abbastanza complicato, ma spero che sia servito ad aggiungere tensione: il lettore deve, in un certo senso, “indovinare” chi dice la verità».
Siamo scrittori, scriviamo romanzi ma oltre che delle storie lette noi siamo figli anche di quelle viste. Pensi anche tu che le serie televisive abbiano preso il posto del cinema come sperimentazione narrativa e fabbrica di storie emozionanti? Ho letto che daLa vedovastanno traendo una serie: tu cosa ne pensi? Fino a che punto sarà fedele al romanzo?
«Sono assolutamente d’accordo con te sul fatto che le serie televisive siano in piena età dell’oro. Io amo molto il cinema, ma non c’è dubbio che alcune serie prodotte per la tv siano estremamente creative e avvincenti. In pratica, invece di raccontare una storia “alla vecchia maniera” condensandola in un film di due ore, oggi puoi prolungarla in tanti episodi da un’ora ciascuno, che ogni volta lasciano lo spettatore con l’acquolina in bocca. Sì, i diritti de La vedova sono stati venduti a una casa di produzione televisiva, che – incrociamo le dita! – dovrebbe trarne una serie. La società che ha acquistato i diritti è la Playground, la stessa di Wolf Hall e The Missing: ho grandi aspettative».
Che succede dopoLa vedova? Cadrai anche tu nella trappola della serialità – come è successo a molti di noi- portandoti qualcuno dei personaggi del romanzo?
«Ho appena consegnato il mio secondo romanzo, e mi sento come se me lo fossi appena strappato dalle viscere! Quando ho scritto La vedova non avevo intenzione di farne una serie, ma il personaggio della giornalista, Kate Waters, ha suscitato un interesse talmente forte da convincermi a “tenerla” anche nel secondo libro, che si intitolerà The Child. La storia inizia con Kate che legge un trafiletto su un giornale della sera, a proposito della scoperta del cadavere di un bambino all’interno di un cantiere: da lì parte la sua indagine, che avrà effetti devastanti sulla vita di tre donne».