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 2016  settembre 07 Mercoledì calendario

In Italia nulla finisce per davvero. C’è il rischio che i morti afferrino i vivi, bloccandone il cammino

Recita  il celebre epitaffio sulla tomba di monsieur de La Palice: «Un quarto d’ora prima di morire, era ancora in vita». Lapalissiano, per l’appunto; chi mai potrebbe confutarlo? Noi italiani, che abbiamo inventato la massima contraria. Questa: «Un quarto d’ora dopo la sua morte, era ancora vivo». In Italia vale per le istituzioni, se non per le persone. Vale per il paesaggio di zombie che stiamo edificando, senza nemmeno farci troppo caso. Giacché alle nostre latitudini nessuna legge uccide mai del tutto la legge preesistente, nessuna riforma abrogatrice abroga davvero gli enti e gli accidenti. È il solo miracolo di cui siamo capaci: qui, soltanto qui, il caro estinto non s’estingue.
L’ultimo episodio riguarda le camere di commercio. Già toccate da interventi di riordino (e disordino) nel 2010 e nel 2014, il decreto Madia appena timbrato dal Consiglio dei ministri avrebbe dovuto completare l’opera del boia. Non lo fa, per uno slancio di carità cristiana. Però ne abbatte il numero (da 105 a 60). Il personale (mettendolo in mobilità). Le competenze (segando per esempio ogni funzione connessa all’avvio di aziende). E soprattutto taglia al moribondo i viveri, come peraltro avviene già da tempo.
Le fonti di finanziamento delle camere di commercio si sono ridotte del 35% nel 2015, del 40% nel 2016, nel 2017 ne resterà il 50%. Siccome il 46% dei loro proventi serve a pagare stipendi e strutture, la morte per asfissia è sicura, ma nel frattempo viene rimandata.
Altro delitto incompiuto: le province. Da un giorno all’altro venute in gran dispetto agli italiani, sicché la politica ha armato il plotone d’esecuzione. Nel 2010 prese la mira il IV governo Berlusconi, ma l’arma s’inceppò, e s’inceppò pure il governo. Nel 2011 l’esecutivo Monti sparò il primo colpo di cannone, con un decreto legge che ne riduceva numero e funzioni; due anni più tardi la Consulta annullò il decreto. Allora fu il governo Renzi a premere il grilletto. Nel 2013 il decreto legge n. 93 (che peraltro s’occupava di femminicidio) le mise sotto il tacco d’un commissario. Nel 2014 la legge Delrio cancellò l’elettività delle province, il posto fisso dei loro dipendenti, gran parte delle competenze provinciali. Infine nel 2015 la legge di stabilità ne dimezzò l’organico: adesso mezza provincia è morta, però mezza è ancora viva.
Terzo cadavere ambulante: il Cnel. Qualcuno dirà: ma perché, c’è ancora? In effetti non ha più il becco d’un quattrino, da quando il governo Renzi ne ha decurtato il budget del 55%. I 64 consiglieri hanno perso la loro indennità. Dopo di che si sono persi pure i consiglieri, con 27 dimissionari mai sostituiti. La Confcommercio ha ritirato la sua delegazione. A luglio ha fatto altrettanto la Cgil. L’anno scorso si era dimesso pure il presidente, Antonio Marzano. Gli è subentrato Salvatore Bosco, come presidente f.f. Ma dopo un anno esatto (29 luglio 2016) ha preso cappello pure lui, determinando un dubbio esistenziale: e adesso chi farà le funzioni del facente funzioni? Anche perché, nonostante tutto, la funzione è ancora lì, e infatti il Cnel continua a costarci (9 milioni l’anno). Tirerà le cuoia, si dice, se passa la riforma Boschi. Sicuro? Fin qui l’art. 99 della Costituzione ne garantisce la presenza, ma un organo può ben essere presente anche senza garanzie costituzionali. È il caso della Conferenza Stato- Regioni, per fare un solo esempio. A proposito, che ne sarà di lei?
E c’è infine la triste vicenda del Senato. Niente di male a sbarazzarcene, per semplificare il nostro sistema di governo: dopotutto il monocameralismo vige in 39 Stati al mondo, e non soltanto in contrade esotiche e remote. C’è un’unica Camera in Svezia, Scozia, Ucraina, Portogallo, Israele, Grecia, Norvegia, Danimarca. Ma all’eutanasia noi preferiamo l’accanimento terapeutico; sicché la riforma costituzionale lo mantiene in vita, però attaccato a una bombola d’ossigeno. D’altronde è un vecchio costume nazionale, che nel tempo ha popolato il nostro ordinamento di larve e di fantasmi: dai Tribunali delle acque pubbliche (battezzati nel 1916) ad enti economici il cui stesso nome suona un po’ bislacco, come la Cassa conguaglio trasporti di gas petroli liquefatti.
E se un organo rimane sfaccendato, se le sue competenze vanno in mani altrui? Nessun problema, lo abroghiamo senza mai abrogarlo. Come accadde nel 1956, quando la Consulta tenne la sua prima udienza pubblica. A quel punto non c’era più spazio per l’Alta Corte istituita dieci anni prima dallo Statuto siciliano; tuttavia quest’ultima fu eliminata in via di fatto, giacché il Parlamento non rimpiazzò i suoi giudici in scadenza, dimenticando tuttavia di cancellare i 7 articoli dello Statuto che ne regolano il funzionamento. Dopo sessant’anni quelle norme stanno ancora lì, come un corpo imbalsamato, come il conte Dracula racchiuso nella bara.
È la prova che dà ragione a Lavoisier: in natura nulla si crea e nulla si distrugge. Però la natura delle istituzioni risponde a una logica diversa, perché non è possibile innalzare un nuovo Altare della Patria in un territorio ingombro di macerie. Da qui la causa d’istituzioni incerte e traballanti. Da qui il pericolo da cui dovremmo guardarci: che i morti afferrino i vivi, bloccandone il cammino.