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 2016  settembre 07 Mercoledì calendario

«Ecco perché mi sono seduto al piano in un museo». Riccardo Muti racconta la sua ultima improvvisazione a Capodimonte

Domenica pomeriggio Riccardo Muti, in visita al museo di Capodimonte a Napoli, trovandosi di fronte a un pianoforte ha improvvisato un breve concerto nel salone delle danze del museo. Abbiamo chiesto al maestro Muti di raccontare l’episodio: come è nato e che cosa ha significato per lui.
O gni anno, in settembre, prima di iniziare la nuova stagione di concerti e opere a Chicago e in giro per il mondo, sento il bisogno irrefrenabile di assorbire nuove energie dalle antiche radici delle due regioni da cui provengo: la Campania e la Puglia. Molfetta, le grandi Cattedrali romaniche, Castel del Monte, misterioso maniero di Federico II, Napoli, mia città natale, e molti altri luoghi del grande Sud, a turno, ridanno vigore e entusiasmo alla mia attività di «musicista pellegrino».
Quest’anno ho deciso di ritornare, seppur per due giorni, nella mia città natale per rivedere le meraviglie del museo di Capodimonte. Questo luogo, diretto oggi da Sylvain Bellenger, costituisce con il suo fantastico parco (che nulla invidia a quello di Versailles) uno dei tanti motivi di orgoglio della città partenopea. Napoli: una delle grandi capitali europee, che poteva dialogare alla pari con Vienna, Parigi, Londra, Madrid, con una scuola musicale superba, il cui giudizio lo stesso Mozart temeva.
Il museo di Capodimonte, insieme a tante altre istituzioni culturali uniche al mondo, meriterebbe un’attenzione ancora più viva non solo per lo splendore dell’edificio e del suo parco ma, soprattutto, per la ricchezza immensa dei suoi tesori, provenienti inizialmente dalla collezione Farnese, poi donati dai Borboni, dalla città di Napoli e dall’Italia post unitaria. Innumerevoli stanze stupende si susseguono in corridoi lunghissimi, contenenti capolavori di epoche diverse e di artisti sommi, a cominciare da Tiziano, i cui numerosi quadri accolgono, quasi all’inizio del cammino, lo spettatore incredulo.
Durante la mia visita, in una domenica a ingresso libero e affollatissima, due episodi mi hanno fortemente impressionato. Nel salone delle danze, dove giacciono un paio di pianoforti, un bambino ha toccato la tastiera di uno degli strumenti, creando suoni, che hanno attirato la preoccupata attenzione di un custode. Costui, accorso velocemente, ha impedito l’ulteriore uso dello strumento, sottolineando che non era permesso neppure toccarlo. Trovandomi anch’io vicino al bambino, sono stato avvertito dal suddetto custode di non osare mettere le mani sulla tastiera. Il direttore Bellenger, presente all’avvenimento, ha lodato giustamente il comportamento del custode, che, ligio al dovere, non aveva fatto eccezione alcuna, neanche per un musicista di casa abbastanza conosciuto. Poi le cose hanno preso una via più «napoletana» e simpaticamente conciliante ed io, a richiesta del pubblico, che nel frattempo si era fatto intorno, dopo aver chiesto al custode il permesso di potermi «esibire», ho suonato parte di un valzer di Chopin, ricevendo il plauso degli astanti e dello stesso censore. Sono rimasto molto colpito dal senso del dovere di questo personaggio, testimonianza di una napoletanità severa, ligia al rispetto delle regole che devono essere uguali per tutti; una napoletanità che contraddice certi luoghi comuni, ingiusti e superficiali, che non sanno cogliere, al di là del folklore, la vera sostanza morale di un popolo così complesso.
Il secondo episodio è più sottile e toccante. Dopo aver percorso moltissime sale, ammirando Raffaello, Masaccio, Caravaggio, Bruegel, Giovanni Bellini, Lorenzo Lotto, Luca Giordano, Mantegna e tanti altri, un bambino, con gli occhi pieni di tanta Bellezza e un po’ stordito da tanta sublime Arte si è avvicinato a Bellenger e ha chiesto con innocente semplicità: «Scusi, mi dice qual è la cosa più importante in questo museo?». Il direttore ha risposto: «La tua presenza, quindi, tu!». Una risposta meravigliosa, perché vera. Il bambino, che si ciba di Bellezza, di quella Bellezza, che la Natura ha donato all’Italia e agli Artisti che hanno reso il nostro Paese ancora più grande e unico al mondo. Il bambino, quindi, simbolo di una società migliore.
Nel lasciare Capodimonte e il suo paradiso terrestre, mi è venuta in mente l’iscrizione incisa sulla tomba di Raffaello nel Pantheon e ideata da Pietro Bembo: «Ille hic est Raphael, timuit, quo sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori» (Qui giace quel grande Raffaello. La Natura, la grande genitrice di tutte le cose, temette di essere vinta da Lui vivente e di morire con Lui morente). La Natura che teme la supremazia dell’Arte! Con il pensiero del detto antico che ciò che è Bello è anche Buono e Giusto ho lasciato questo luogo di delizie, portandomi dentro il fascino del suo incanto e con la promessa di ritornarvi al più presto.