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 2016  settembre 07 Mercoledì calendario

Come funziona l’affido in Italia

Il bambino al centro. Di un progetto, il suo. Costruito in base alle sue esigenze, all’età, alla famiglia di origine, al contesto in cui vive. Come un abito sartoriale, richiede misure precise, che vanno riprese poi nel tempo, aggiustate, perfezionate. Dopo vengono gli affidatari, quelli che offrono la loro disponibilità: chi può nel weekend, chi può sempre, chi può per le vacanze, chi ha figli, chi non li ha, chi vive solo.
Il risultato è che oggi non c’è più una sola forma di affido – eterofamiliare o parentale, oppure in comunità – ma diverse, come le persone per le quali viene richiesto il provvedimento dai servizi sociali o dal tribunale per i minorenni. «Nel primo caso l’affidamento è consensuale ed è ratificato dal giudice tutelare, nel secondo è giudiziale», spiega Grazia Cesaro, presidente della Camera minorile di Milano. «I tempi per legge non dovrebbero superare i due anni, ma ormai nei fatti si sono allungati e su questi dovremmo cominciare a ragionare. L’esperienza in famiglia è molto importante. Purtroppo sono pochi quelli che si rendono disponibili, meno di chi servirebbe». I contributi degli enti locali alle famiglie variano: a Milano sono di 480 euro al mese, a Torino 413, ma in molte realtà del Centrosud non ce n’è nessuno. Quanto alle comunità, Liviana Marelli del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza parla di rette medie dai 75 euro giornalieri della Puglia ai 118 del Veneto (in Lombardia la Regione rimborsa 107 euro).
Luigi Fadiga è garante dell’infanzia dell’Emilia-Romagna. Dice che la legge numero 184 del 1983 è chiara: «L’affidamento familiare è preferibile. La scelta della comunità, però, spesso è più comoda, perché consente un’accoglienza immediata. Con la famiglia occorre formazione e collaborazione. La prima domanda che dobbiamo farci è: di cosa ha bisogno questo bambino? È un neonato? Ha 5 anni? Ne ha 15? È italiano o straniero? Ha subito maltrattamenti?».
Il tema è sentito da tutti gli operatori. Non a caso anche Filomena Albano, nominata lo scorso marzo Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, insiste: «Bisogna creare centri di affido specializzati, in modo da declinare l’affido nel modo migliore: a tutto tempo, part-time, l’affido di mamma e bambino, la pronta accoglienza con chi ha meno di un anno, l’aiuto di prossimità».
Manca però una banca dati nazionale che certifichi ogni provvedimento. Il decreto per istituirla è stato fatto nel dicembre 2014, è il numero 206. «Ma ancora non esiste ed è sempre più urgente», dice Frida Tonizzo, consigliere nazionale dell’Associazione delle famiglie adottive e affidatarie. Il problema scritto nero su bianco nell’ultimo Rapporto del Gruppo Crc, il network che vigila sulla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia. Sono loro a fornire i dati del ministero del Lavoro delle Politiche sociali, fermi ancora al 31 dicembre 2012: 6.750 minorenni affidati a parenti, 7.444 affidati a terzi, 14.255 in comunità residenziali. I numeri cambiano se cambia la fonte. L’ultimo monitoraggio dell’Istituto degli Innocenti parla di 14.500 minorenni affidati alle famiglie e 16 mila circa nelle strutture residenziali. «L’aumento è collegato all’incidenza di minorenni non accompagnati che arrivano in Italia con gli sbarchi», spiega Donata Bianchi, responsabile ricerca e statistica.
La senatrice pd Francesca Puglisi è la prima firmataria della legge 173 del 2015 che stabilisce il diritto del minore alla continuità degli affetti e che quindi favorisce l’adozione da parte delle famiglie già affidatarie. Ora aggiunge: «In Italia manca l’adozione aperta, ma ci stiamo lavorando. Significa permettere l’adozione mantenendo i legami con la famiglia di origine. Oggi questa fattispecie è mascherata dietro l’affido sine die».
A Milano lo scorso anno sono stati fatti 192 affidi a tempo pieno, 10 di pronta accoglienza (bimbi sotto l’anno di età), 30 part-time (cioè nel weekend o per le vacanze), 16 di tipo giornaliero, 65 ai parenti. Silvia Zandrini è la responsabile del Coordinamento affidi del Comune. Ammette: «Non tutti i bambini possono andare subito in famiglia. Talvolta è necessario curare prima le loro ferite e l’accoglienza in comunità diventa preferibile per ricostruire la fiducia negli adulti in un contesto diverso dal nucleo familiare. In ogni caso, non si può partire dalle esigenze dell’affidatario, ma da quelle dell’affidato». Il bambino al centro. Sempre.