Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  settembre 04 Domenica calendario

Gli scrittori ancora non sanno scrivere sul web

Una sera, all’inizio dell’estate, mi sono ritrovato a cena in un ristorante della costa adriatica. La grande sala, semivuota, trasmetteva la tristezza tipica dei ristoranti turistici sorpresi fuori stagione. Oltre a me c’era soltanto una coppia, una ragazza sulla trentina in compagnia di un uomo più vecchio. Poiché non avevo molto a cui prestare attenzione ho teso l’orecchio al loro litigio: era punteggiato di insulti vividi e ruotava intorno a certe recriminazioni classiche da parte della ragazza (mi trascuri, fai il cascamorto con le altre). L’aspetto curioso, tuttavia, era che nessuna di queste accuse riguardava episodi che i due avevano vissuto insieme: l’epicentro dello scontro era Facebook. La ragazza rinfacciava all’amante le amicizie che concedeva con leggerezza eccessiva, i post piccanti, i troppi Mi Piace, come se la condotta di lui sul social fosse uno specchio fedele di quella autentica. Anzi, come se la sua condotta su Facebook fosse più autentica ancora di quella autentica.
È il genere di mondo che abitiamo oggi: un qualche stato intermedio fra il terrestre e il virtuale (dire «tra il reale e virtuale» non suona più così convincente). C’è chi si trova bene e chi non è ancora del tutto a suo agio, ma poco cambia. La Rete ci avviluppa e nulla suscita più parole a proposito di sé della Rete stessa. Siamo arrivati al punto di valutare il peso degli eventi in funzione dell’importanza che internet attribuisce loro, proprio come i due amanti al ristorante. Quello che in principio era un mezzo è diventato infine anche lo scopo. Non c’è filosofia di vita che sfugga, non c’è relazione che non ne sia infettata né mestiere rimasto indenne.
Hyperscrittori
Anche i lettori e gli scrittori, due categorie per lo più refrattarie ai cambiamenti, sono chiamate a fare i conti con la tecnologia che trasforma tutto. Ma, a eccezione dei romanzi di fantascienza e di pochi altri casi isolati, la letteratura non è mai stata il luogo del futuribile. In quanto territorio dominato dalla memoria, si trova più a suo agio nel passato.
Agli inizi del Novecento, quando il telefono si stava diffondendo, gli scrittori insistevano nel menzionare all’interno dei loro testi il telegrafo elettrico. Anzi, «a livello letterario l’avvento del telefono sembrò rinvigorire l’interesse nei confronti del telegrafo» (Gabriele Balbi, Squilli di carta, Franco Angeli, 2007), come se gli autori volessero a tutti i costi difendere lo strumento tradizionale dal nuovo che minacciava di soppiantarlo. Quasi un secolo dopo, ormai digerita la telefonia «fissa», una resistenza simile veniva opposta dagli scrittori alla telefonia mobile. Anche la televisione ha creato parecchia preoccupazione, ed è facile immaginare che lo stesso sia accaduto per ogni mezzo che abbia modificato drasticamente il modo di comunicare. Per quale motivo? Forse perché, come afferma Jacques Le Goff, «gli uomini si servono delle macchine che inventano conservando la mentalità dell’epoca precedente a queste macchine».
Insomma, saremo sempre un po’ troppo vecchi per raccontare il mondo tecnologico che abitiamo. Per la maggioranza degli scrittori quest’impotenza congenita si manifesta in riserve di carattere estetico. La scrittura letteraria ha in sé la vocazione di avvicinarsi quanto più le è concesso alla realtà, mantenendosi tuttavia impercettibilmente al di sopra di essa, depurandola dei suoi aspetti banali o deteriori: quando fatichiamo a includere un aspetto del presente in un racconto è perché, da qualche parte della nostra coscienza, lo avvertiamo ancora come un elemento corrivo, esteticamente «brutto» della nostra quotidianità. Non gli siamo abbastanza assuefatti.
In tal senso, è indubbio che il grande grattacapo narrativo dell’oggi è rappresentato dalle evoluzioni della Rete. Non mi pare troppo interessante soffermarmi qui su quanto l’accesso a un’informazione globale abbia alterato il nostro modo di pensare, e quindi di scrivere, perché se n’è già parlato diffusamente. È senz’altro vero che i romanzi recenti beneficiano spesso della vastità di tale informazione e che in pochissimi (nessuno?) riusciremmo ormai a concepire questo mestiere senza la stampella perpetua di Google e Wikipedia, ma tutto ciò è accaduto, per così dire, «passivamente», senza che ce ne accorgessimo o quasi.
Ciò che mi sembra poco risolto, invece, è se le molteplici ramificazioni della Rete siano state o meno incluse «attivamente», e con piena soddisfazione, nella prosa letteraria. Sappiamo bene quanto nell’ultimo decennio il web sia diventato pervasivo: Facebook, Twitter, Amazon, Uber... ognuno ha sovvertito in un lampo le regole dell’ambito nel quale è andato a inserirsi, regole che prima di allora si erano evolute con lentezza geologica. Naturale, perciò, che anche i narratori più svelti si siano trovati in affanno e che gli altri siano andati decisamente nel panico. C’è chi ha ignorato le novità come se non esistessero (personaggi anacronistici che perseverano nel compilare lettere a mano al posto di mandare email...), chi ha invece scelto l’escamotage della retrodatazione. Soltanto pochi spavaldi hanno provato ad affrontare la mutazione a viso aperto. Dave Eggers ha ambientato i suoi ultimi due romanzi – Ologramma per il re e Il cerchio – nel mondo della tecnologia digitale. Nel 2012 Jennifer Egan ha pubblicato sulla piattaforma Twitter del «New Yorker» un racconto intitolato Scatola nera, a colpi di 140 caratteri per volta. E qualcun altro ha cercato di rendere internet addirittura costitutivo del meccanismo di narrazione: la hypertext fiction, ad esempio, consente di espandere la fruizione di una storia attraverso dei link, creando una specie di «lettura aumentata». Ma i romanzi di Eggers sono in fin dei conti tradizionali, il tentativo di Egan è stato un gioco divertente e scaltro, non certo un’aggiunta fondamentale al corpus letterario dell’Occidente, e la hypertext fiction, a scapito di chi giurava che avrebbe sotterrato i libri tradizionali, si è rivelata un flop.
Ovviamente si possono trovare innumerevoli altri esempi, romanzi nei quali uno o più aspetti della Rete siano stati incorporati, ma è assai arduo trovarne uno che si misuri davvero con il cambiamento dei linguaggi mantenendo intatto il proprio valore artistico. Io non ne ho trovato nessuno. Ogni volta che all’interno di un romanzo m’imbatto in una conversazione messaggistica, nello stralcio di una chat, in un post di Facebook, per non dire in un tweet con tutti quei diesis barocchi; ogni volta subisco l’effetto di essere scalzato dal flusso narrativo, precipitato in un luogo più convenzionale e «asettico» di quello che vorrei. La discontinuità tipografica, seppure necessaria, è di per sé sufficiente a innescare l’estraniamento, ma il disagio profondo scaturisce dal sospetto che queste forme espressive nuove siano in fondo troppo gracili per sostenere il peso dei contenuti letterari, che certe maglie della Rete siano in realtà troppo slabbrate per riuscire a trattenerne il mistero sottile.
La pigrizia degli eroi 2.0
Si tratta di un deficit di fantasia, me ne rendo conto. Come mi rendo conto che ognuna delle precedenti affermazioni può essere liquidata all’istante come nostalgica e/o applicabile a ogni epoca e/o semplicemente falsa. Ma voglio comunque osare e proporre che esista uno specifico di internet che lo rende particolarmente difficile da assimilare in letteratura, più di altre invenzioni del passato: il fatto che l’interazione fra uomo e Rete sia per lo più statica e solitaria e pertanto intrinsecamente non narrativa.
Cercherò di spiegarmi meglio. In una mattina mite di giugno la signora Dalloway esce di casa per andare a comprare dei fiori. Quando sta per entrare nel negozio scorge casualmente il veterano Septimus Smith. La sera stessa, durante la festa che ha organizzato, la notizia del suicidio di Septimus sconvolge la sua anima, con tutti gli ondeggiamenti bellissimi e segreti dei quali Virginia Woolf ci mette a parte. Prendiamo ora la signora Dalloway 2.0. Lei non si muove affatto da casa. Comoda sul divano, ordina dall’app di Interflora il bouquet che meglio s’intona al suo soggiorno e il mazzo le viene recapitato alla porta poche ore dopo. Niente Septimus Smith a turbare la sua giornata perciò, niente inutili magoni, niente letteratura.
Nell’epoca 2.0 la biblioteca di Babele di Borges è tutta contenuta in Rete e basta digitare stringhe di caratteri per muovercisi attraverso. E Bastiano Baldassarre Bucci non si sogna neppure di rubare il volume della Storia infinita, semmai ne scarica la versione pdf pirata. Per chiamare un taxi si china la testa sullo smartphone e anche per tradire il proprio marito si china la testa sullo smartphone. Tutto è più statico, solitario. Tutto è filtrato attraverso un altro mezzo – tablet, telefono, computer – che accentra su di sé lo spazio e l’attenzione. Non si può dire che accadesse lo stesso con l’avvento della telefonia fissa (che aggiungeva al più una modalità inedita di comunicazione) né con la televisione (che offriva soltanto un’altra attività ricreativa ai nostri pomeriggi). In quei casi il nuovo mezzo non s’inseriva come un’intercapedine appiattente fra il personaggio e il suo agito né gli stava così costantemente «addosso». Perciò, fino a quando uno scrittore-genio non mi dimostrerà il contrario, riterrò vera la massima seguente: nel rendere più agevoli molte operazioni tediose del nostro quotidiano, la tecnologia smart le trivializza.
Se gli scrittori non vanno a internet...
Ma usciamo dalle pagine dei libri e allarghiamo un po’ il campo. Che i social network abbiano rosicchiato i bordi già malridotti dei nostri spazi di lettura «tradizionale» è, direi, pressoché incontrovertibile. «Chi ha tempo di leggere letteratura quando ci sono tanti blog su cui tenersi aggiornati, tante dispute culinarie da seguire su Twitter?» (Jonathan Franzen, Il progetto Kraus, Einaudi 2014: affermazioni simili gli hanno rovesciato addosso un vilipendio mostruoso, quasi che avesse proposto di invadere Cuba). Ma, cento anni prima, Karl Kraus stesso denunciava i «piacevolissimi pRetesti» per evitare la letteratura, come se fossero una costante storica. Serie televisive, videogiochi, telefoni... tutto funziona a meraviglia quando ci si vuole lasciar distrarre. Inutile caricare tutta la colpa sulla Rete e i social network.
Come spesso accade, però, ciò che rappresenta un peccato veniale per un lettore comune, diviene mortale per chi ha anche l’arroganza di scrivere. Per molti autori la Rete è diventata il prolungamento ovvio dei romanzi, se non un’attività fieramente indipendente. Ci sono scrittori che non si bastano più in quanto tali, vuoi perché la possibilità infinita di espressione li eccita, vuoi perché temono l’estinzione accelerata prevista, fra gli altri, dal sociologo Frédéric Martel. (Di rado gli editori li rassicurano in tal senso, sono anzi segretamente rincuorati quando uno dei loro si getta con coraggio nell’arena del web: non si sa mai che valga con qualche approssimazione l’uguaglianza 1 follower = 1 libro venduto).
Fermo restando che ognuno fa quello che gli pare con il suo smartphone, c’è una questione cruciale che viene ignorata volentieri, tanto dagli autori quanto dai loro editori: la limitatezza del tempo e dei pensieri di ognuno. Le ore migliori di creatività, quelle che ogni scrittore dovrebbe devolvere alla propria opera in corso, sono in genere quantificabili da un minimo di due a un massimo di quattro al giorno. Comporre un post o un tweet felici – un post o un tweet che rispecchino la profondità che desideriamo gli altri ci attribuiscano – richiede di certo una porzione piccola di questo tempo, qualche minuto appena, ma nella proliferazione dei mezzi di socialità quel «tempo piccolo» tende a sommarsi in maniera incontrollata, soprattutto se si considera che un tweet o un post non vivono mai in autonomia: vanno coccolati, accompagnati, bisogna monitorare i Mi Piace e le condivisioni, rispondere ai commenti, fiutare l’aria che gli si è fatta intorno.
Lo stesso principio di conservazione del tempo creativo vale, suppongo, per i pensieri. Scialare sui social network aiuta sì a sponsorizzare le proprie attività e a non essere dimenticati per un altro giorno, ma sottrae al contempo idee. Come ogni autore sa, una frase arguta già espressa è ormai consumata; un bel paesaggio fotografato e condiviso dall’iPhone non diverrà una descrizione gloriosa, e una battuta di dialogo udita di straforo e usata per far ridere il gruppo WhatsApp non verrà ripetuta da un personaggio. Ciò che si spende sulla Rete è difficilmente riciclabile in un libro, se non al prezzo di un’onta perpetua per l’autore. Gli autori che non partecipano ai dibattiti sui social network, perciò, spesso non lo fanno per spocchia né per sfidare l’estinzione marteliana, bensì per un calcolo economico spicciolo: conservare per i libri quell’esigua manciata quotidiana di buone intuizioni.
...internet va agli scrittori
Per fortuna, la sottrazione sociale è ancora un atteggiamento concesso ai romanzieri, basti pensare agli eccessi di J. D. Salinger, Thomas Pynchon ed Elena Ferrante. Viene scambiata per rigore anche quando deriva da cause affatto diverse, come la pigrizia, la timidezza o l’agorafobia. E poi, peggio per lui se uno scrittore si tiene alla larga dalla Rete, perché la Rete, a quanto pare, brulica di talenti propri. Se fino a un decennio fa l’editoria andava a caccia delle memorie di personaggi eminenti della televisione, della musica e dello sport, il naso è adesso rivolto al vento dei blogger, degli YouTuber, di tutti coloro che hanno già a disposizione un pubblico, sebbene uno virtuale.
La primavera scorsa stavo camminando intorno al perimetro della Fiera del Libro di Bogotà. C’erano ragazzi e ragazzi assiepati sui muretti di cinta, aggrappati alle sbarre di metallo, e ho pensato allegramente: «Alla faccia di chi considera la lettura estinta!». Per quel giorno era previsto l’intervento di un caustico scrittore colombiano, Fernando Vallejo. Soltanto una volta all’interno ho capito che le migliaia di persone, soprattutto giovani, non erano lì per lui, bensì per vedere German Garmendia, l’ideatore ventiseienne del canale YouTube HolaSoyGerman, dove lo stesso Garmendia si esibisce in monologhi nevrastenici con titoli quali la comida, la primera vez, los hermanos, como sobrevivir a una ruptura. La polizia ha dovuto bloccare l’ingresso alla Fiera per eccesso di pubblico, così Vallejo, 73 anni, si è ritrovato la sala mezza vuota.
Riporto l’evento con la massima neutralità della quale sono capace. Scandalizzarsi del fatto che gli editori si aprano alle nuove opportunità del reale sarebbe ingenuo e parecchio retrivo. Nel processo di assimilazione dei fenomeni del web all’editoria tradizionale c’è nondimeno un elemento bizzarro: il «vecchio» che si appropria del «nuovo», il mondo decrepito dei libri che esercita un’azione normalizzante proprio su coloro che si presentano indipendenti, anarchici e non-normalizzabili, come spesso i blogger e gli YouTuber.
Ancora più bizzarro è che questi ultimi non vedano l’ora di abbracciare il cadavere dell’editoria cartacea, per riceverne il beneplacito culturale, l’aura polverosa di eterno, o più banalmente per sfruttarlo come merchandising. Comunque sia, si comportano come se, confinati dentro il miracolo democratico della Rete e circondati da decine di migliaia di seguaci, non sentissero di esistere sul serio. Commuove quasi. A quanto pare nessuno basta più a se stesso, non gli scrittori, ma neppure gli YouTuber, i blogger e gli editori.
«Mi hai chiesto che cosa credo»
La consapevolezza nell’uso di un mezzo aumenta con il tempo di utilizzo del mezzo stesso. È ovvio, e vale anche per la Rete, per i social network e tutte le app dell’universo. La fregatura, per i narratori come me spezzati in due tra una formazione avvenuta tutta nel Novecento e un praticantato che si svolge nei Duemila (i piedi sui bordi opposti di un crepaccio che si allarga); la fregatura è, paradossalmente, di non avere utilizzato abbastanza i social network o internet in sé, di non averli incontrati così presto da averne quella consapevolezza così autentica e completa da essere inconsapevole – l’unica capace di arricchire la letteratura senza artificiosità.
Le conseguenze proteiformi del digitale, il vivere in ogni istante «qui e altrove», caratterizzeranno sempre più massicciamente le nostre esistenze di persone, ma è probabile che non sapremo includerle con altrettanta incisività nelle nostre pagine. Facciamo, faremo dei tentativi, perché sarebbe da codardi rinunciare e perché la Rete è la novità che sposta in avanti il nostro traguardo come narratori. Ma solcare quel traguardo è una speranza vana (se fosse plausibile, il bel gioco della letteratura sarebbe finito da un pezzo). Ciò suscita, a seconda dei momenti, un grande eccitamento oppure una frustrazione invincibile, la spinta nobile a non essere passé e la recriminazione lagnosa: «Se solo fossi nato vent’anni prima!». Ma davvero sarebbe stato meglio? Nel 1990, parlando di televisione, David Foster Wallace scriveva: «Chi vuole fare narrativa nella nostra cultura sta proprio nella merda» ( E Unibus Pluram, in Tennis, tv, trigonometria, tornado, minimum fax).
Per non soccombere all’incertezza e restare dritto, almeno mentre scrivo, mi aggrappo al principio severo di Ulrich: «Mi hai chiesto che cosa credo. Credo che anche se mi si dimostra mille volte che una cosa è buona oppure è bella, io sono e rimango indifferente, e l’unico segno sul quale regolerò il mio giudizio è: se la sua presenza mi abbassa o mi innalza» (Robert Musil, L’uomo senza qualità ). È un criterio facile e dirimente. Mi dicono ovunque che la Rete è bella e buona, che i social network sono belli e buoni, e così tutte le app dell’universo. Ci credo. E tutto quanto di essi riesce a influenzare la mia prosa senza «abbassarla» è il benvenuto. Al resto, però, sono costretto a rinunciare.
Per leggere il nostro tempo nella sua integralità e averlo restituito in forma armoniosa, occorrerà attendere ancora. Ma verrà infine uno, dopo di noi: un James Joyce 2.0 che saprà esattamente come fare. Verrà senz’altro. Anzi, sono sicuro che è già lì dietro l’angolo ad aspettare.