La Lettura, 4 settembre 2016
«La vigliaccheria è più interessante del coraggio». Parola di Julian Barnes
Mosca, maggio 1937. Un uomo col cuore gravato dall’angoscia passa la notte sul pianerottolo di casa accanto all’ascensore. Come altri moscoviti caduti in disgrazia, ha con sé una valigetta con un cambio di vestiti. E nell’attesa, fuma una sigaretta dopo l’altra. Nell’Urss delle purghe di Stalin la polizia segreta arrivava col buio. E la gente raccontava una storia. Chi si faceva sorprendere nel proprio letto non tornava più. Mentre chi si faceva trovare pronto, aveva qualche possibilità di salvarsi. «È un’immagine straordinaria quella di Shostakovich che per dieci notti di seguito aspetta davanti all’ascensore i suoi aguzzini, mentre la moglie incinta dorme nel suo letto», dice Julian Barnes a «la Lettura», le lunghe gambe accavallate su un divano rosso dietro il quale, attraverso il vetro della finestra, si vedono le chiome degli alberi di una stradina del Nord di Londra. «Quando ho detto a Simon Rattle (il celebre direttore d’orchestra, ndr ) che stavo scrivendo un libro su Shostakovich, la prima cosa che mi ha detto è: “La scena di lui che aspetta sul pianerottolo!”».
Julian Barnes ha da poco compiuto settant’anni, e anche se, a riprova del fatto che li ha festeggiati, in cucina ci sono cassette di vino e altri regali inviati dai suoi editori di tutto il mondo, è difficile dare un’età a quest’uomo dal lungo viso magro e gli occhi smaltati di azzurro. Siamo qui per parlare del suo nuovo libro, Il rumore del tempo (Einaudi, ottima traduzione di Susanna Basso): un romanzo breve, intenso, con una forte impronta letteraria e una struttura «cubista» che ricorda quella del suo primo grande successo, Il pappagallo di Flaubert, del 1984. «Lei mi chiede che cosa mi abbia attirato nella figura di Shostakovich», dice porgendo una tazza di quello che con divertimento chiama builder’s tea – tè forte, latte, zucchero – nella sala da biliardo un po’ in disuso al primo piano della sua casa vicino a Tufnell Park. «La risposta è ovviamente il tema dell’arte che entra in collisione con il potere. Ma anche la vigliaccheria di Shostakovich. Perché la vigliaccheria è più interessante del coraggio, soprattutto in letteratura. Dura di più, e non è apprezzata appieno», insiste con un’espressione maliziosa. «Essere eroi ha una certa immediatezza: ti esponi a un rischio, spari, vieni ucciso. Ma se sei codardo, è una cosa che ti tocca essere ogni giorno. Il gusto che si prova a leccare gli stivali altrui ce l’hai sempre in bocca».
Ad ascoltarlo parlare nel suo inglese elegante, è chiaro che quest’uomo, figlio di due insegnanti di letteratura francese, usa l’ironia per prendere le distanze. Del resto, i suoi romanzi (una ventina, tra cui Il senso di una fine, premio Booker 2011) si distinguono per la freddezza di stile con cui esplorano i lati oscuri dell’animo umano: le emozioni inconfessabili, gli atti di meschineria, la gelosia, la paranoia, la paura della morte, il tradimento dell’amicizia e dell’amore. In questo senso, si può dire che Barnes è l’autore perfetto per interpretare il dramma di Shostakovich, un genio della musica schiacciato dal pugno di Stalin e sceso ai più umilianti compromessi col potere.
È stata la lettura delle sue memorie raccolte da Solomon Volkov e uscite postume (non a caso) nel 1979 negli Stati Uniti col titolo Testimony ad affascinarlo, racconta Barnes. All’epoca, il libro – in cui Dmitri Shostakovich prendeva per la prima volta le distanze dal regime – fu accusato da molti di essere un falso. Ma a Barnes, che ha studiato russo a Oxford, non interessa schierarsi e dire se il compositore fosse o no un dissidente intimo (ammesso che una cosa simile esista). Quello è un lavoro da storici, non da romanzieri, dice. E nemmeno vuole addentrarsi nell’interpretazione della sua musica, non essendo musicologo. Ciò che gli preme è dar voce alla coscienza di un personaggio dannato, umiliato, eppur così geniale da essere capace, dopo un interrogatorio terrificante, di sedersi alla scrivania e scrivere un capolavoro come la Quinta sinfonia.
«È un pregiudizio occidentale quello che l’artista dell’Europa dell’Est debba essere un eroe che non scende a compromessi. Bohumil Hrabal, che era uno scrittore meraviglioso, ha firmato un pezzo di carta a sostegno del regime, pur di essere pubblicato in Cecoslovacchia. C’è gente che non lo avrebbe fatto, ma io mi sarei comportato come lui. Stessa cosa per l’albanese Ismail Kadare. Lo hanno accusato di avere avuto rapporti con i servizi segreti. Cristo! Se fossi stato albanese avrei fatto anch’io certe cose!».
Quanto a Il rumore del tempo, che prende il titolo da un’immagine poetica di Osip Mandel’stam, ha organizzato la sua struttura intorno a tre «conversazioni con il potere» che hanno segnato la vita del compositore di San Pietroburgo. La prima è del gennaio 1936, quando Stalin si reca al Bolshoi per assistere all’ottantaquattresima rappresentazione dell’opera di Shostakovich L ady Macbeth del distretto di Mcensk, una cruenta storia di liberazione sessuale nella Russia zarista che stava avendo successo anche in Europa e negli Stati Uniti. Ma Stalin non gradisce quella musica che «grugnisce, ansima, sbuffa» e lascia la sala prima della fine. Il giorno dopo sulla «Pravda» uscirà una stroncatura forse scritta da lui stesso (intitolata Caos anziché musica ), che è un pesante avvertimento se non già una condanna a morte. Se il compositore, che ha 29 anni, continua così, si legge, «potrebbe finire male».
La seconda conversazione di Shostakovich con il potere avviene quando Stalin gli telefona nel 1948 per «chiedergli» di fare un viaggio di propaganda negli Stati Uniti, dove il musicista sarà costretto a denunciare il suo idolo Stravinsky e sottoposto a pubblica umiliazione da Nicolas Nabokov, cugino di Vladimir e mediocre compositore, probabilmente al soldo della Cia. La terza è del 1960, quando, già all’epoca di Krusciov, dopo avere esercitato per decenni il potere di censura sulle sue opere, il governo gli chiede di iscriversi al partito. E Shostakovich si maledice e si tortura – alcuni dicono che si sia ubriacato e abbia singhiozzato – ma non trova il coraggio di opporsi. La questione è quanto, in questo contesto, l’autore della Settima sinfonia («di Leningrado») sia riuscito a mantenere la propria integrità artistica. «Io penso – riflette Barnes – che ci sia riuscito nella misura in cui glielo hanno permesso le circostanze. Aveva un approccio che chiamava il sistema dei tre cassetti. Un cassetto per la musica compiacente verso il potere: grandi cori o musiche da film (aveva la fortuna di riuscire a comporre molto velocemente). Un cassetto per le cose più personali come il quartetto d’archi, in cui non scendeva a compromessi. E poi il cassetto centrale, quello delle sinfonie, che richiedevano una negoziazione col partito per essere eseguite e naturalmente anche per essere pagate».
Poi la conversazione si sposta sul libro precedente di Barnes, Livelli di vita, dedicato alla morte dell’amatissima moglie Pat Kavanagh. Lì il lettore percepiva una vicinanza assoluta con l’autore: nessuna barriera. In quest’ultimo romanzo, invece, è come se Barnes avesse voluto riprendere le distanze. «È vero. Ho scritto, come dice lei, senza barriere, una sola altra volta nella vita, nel capitolo sull’amore di Una storia del mondo in 10 capitoli e 1/2, che era direttamente autobiografico. Ma quando si tratta di fiction sono flaubertiano: lo scrittore deve essere onnipresente e allo stesso tempo invisibile». Poi parla del sentimento del lutto per la perdita della moglie, scomparsa nel 2008, che ancora non lo ha abbandonato. «Il tuo mondo è cambiato, si è riallineato, e la gente non capisce che non hai bisogno della psichiatria, ma di un po’ di tenerezza. E di ricordare. Vado al cimitero, a mezzo miglio da qui, ogni volta che lo desidero. Ho la chiave del cancello. E le parlo. Vivo nella casa in cui abbiamo vissuto insieme per 25 anni. Per cui lei è tutt’intorno a me», sorride.
Shostakovich morì nel 1975, a 68 anni. «Dunque – scrive Barnes – gli era toccato di vivere abbastanza da sconcertare se stesso. Capitava di frequente agli artisti: di soccombere alla vanagloria, finendo col pensarsi più grandi di quanto non sia vero, o alla delusione. Negli ultimi tempi, era incline a considerarsi un compositore scialbo, mediocre». L’insicurezza dei giovani è nulla in confronto all’insicurezza dei vecchi, insinua l’autore di questo romanzo che per paradosso dimostra, invece, tutta la sicurezza della sua maturità. «E questo, forse, era il trionfo definitivo su di lui dei governanti sovietici», conclude, con un’ultima concessione al gusto del paradosso. «Anziché ucciderlo, gli avevano concesso di vivere e, così facendo, erano riusciti a ucciderlo».