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 2016  settembre 04 Domenica calendario

«Quando leader non si nasce, si diventa». Ritratto di Bonucci, l’uomo che ha preso per mano l’Italia

Se in una qualsiasi discussione da bar si volesse provare davvero a indispettire un tifoso della Juventus basterebbe menzionare un’annata: 2010/11. L’arrivo di Andrea Agnelli, lì per lì, aveva fomentato tutti giusto per il cognome evocativo di antiche e vincenti dinastie. Il mercato, però, non era quello degli Higuain e dei Pjanic, bensì del «malaka» Martinez, di Armand Traoré, di Aquilani, Motta, Rinaudo e Krasic. Una quarantina di milioni buttati che scatenarono le ironie sulla competenza di Marotta.
Tra i vari acquisti c’era anche Leonardo Bonucci, reduce da una grande stagione nel Bari di Giampiero Ventura. Già, ma lui era cresciuto nell’Inter e in Puglia giocava in coppia con Ranocchia. Il pezzo pregiato, tra i due, era proprio quest’ultimo. Con Del Neri, poi, in panchina il gioco non decollava affatto e a Bonucci, che nel 2004 alla Viterbese faceva il centrocampista, l’idea di non poter giocare palla e di dover rispondere agli attacchi «laterali» (suo vero tallone d’Achille) non lo faceva sentire per niente a suo agio. Visti gli erroracci palla al piede venne persino coniato il termine «bonucciate». Altroché predestinato. Bonucci, però, è l’esempio che leader non si nasce, si diventa. A inizio carriera era chiuso, introverso, irascibile. Assunse un mental coach che per fargli controllare gli istinti lo portava in cantina, al buio, e lo riempiva di botte impedendogli di reagire. Quella rabbia, nel corso degli anni, l’ha trasformata in coraggio, ché essere istintivi è un difetto, essere trascinatori è una virtù. Dopo ogni bonucciata si ripeteva: «Ho fame e sono forte». Con l’arrivo di Conte al posto di Del Neri ha cambiato persino stile di gioco, sintetizzato dai numeri: quasi 3 tackle in media a partita contro i 2,1 dell’anno precedente. La sua dote è l’anticipo, non l’uno contro uno. Non gioca a calcio guardando il pallone, ma l’avversario. Come nel poker.
Da allora è stato un crescendo. Diceva di ispirarsi a Piqué, finché non ha scoperto, grazie a Guardiola (che ha «forgiato» il centrale catalano) di valere molto più di lui: 60 milioni, per l’esattezza. In estate Pep era pronto a portarselo al City. Ma Bonucci lo sa bene, un leader è forte grazie al gruppo che lo circonda. E Barzagli e Chiellini a Manchester non ci sono mica. In Nazionale sì, però. Senza di lui l’Italia di Ventura, l’uomo che l’ha voluto a Pisa prima e a Bari poi, ha preso 3 gol e almeno 5 imbucate con la Francia. Ma Bonucci aveva altri problemi. Lui, lontano dai riflettori e dalle copertine patinate, ha un solo amore oltre al calcio: la famiglia. Dal matrimonio con Martina Maccari sono nati due figli: Lorenzo (4 anni) e Matteo (2). Il secondogenito a fine luglio è stato sottoposto a un delicato intervento chirurgico per l’insorgenza di una patologia acuta. Una settimana fa, poi, la ricaduta. All’improvviso il leader si è sentito privato della sua forza. Tutto il mondo dello sport si è stretto attorno a un padre e a un calciatore che non si risparmia mai.
Quando Ventura, ansioso di ritrovarlo, lo ha convocato per gli impegni con Francia e Israele, ha risposto: «Mister, non ci sono con la testa, torno a novembre». Se lo avesse fatto davvero, però, non sarebbe diventato Bonucci. La condizione del piccolo Matteo è migliorata. Le cose hanno iniziato a sistemarsi. Tranne la difesa dell’Italia, ridotta a un tocco di groviera. Da qualche anno dopo i gol Bonucci inizia a disegnare un cerchio attorno al viso, come a ribadire che non si nasconde. E allora eccotelo, Leo, tornare in gruppo ieri pomeriggio pronto a partire per Haifa. Per se stesso, per la Nazionale e per Matteo. riproduzione riservata