Libero, 4 settembre 2016
Se Freud avesse messo Saviano sul suo lettino...
Mi è stata chiesta un’analisi del fenomeno Roberto Saviano. Mi ci applico volentieri anche se, lo confesso, ho fatto una certa fatica a... raccapezzarmi. Saviano va scomposto in due momenti fondamentali, molto diversi fra loro. Nel primo, il soggetto aveva firmato un libro che un insieme di congiunture fortunate aveva reso un caso, un fenomeno in evoluzione ed espansione esponenziali. Dove la figura dell’autore veniva connotata in chiave positiva e coraggiosa, quasi eroica, persino con segnali di martirio. Successivamente è intervenuta una mutazione genetica e filosofica che ha trasformato il modello in uno strumento socio-sentimental-cultural-moral-politico, stravolgendo il primo stato. Si direbbe che lo scrittore sia stato assunto, incorporato in un’Accademia che intende porsi come faro del Paese Italia, destrutturarlo, angosciarlo, piuttosto che cambiarlo. Questa espansione ipertrofica ha portato a rimuovere un dato acquisito e diventato oggettivo, mi sono riferito anche a giudizi di vostri specialisti della cultura e della critica: la qualità «medio-bassa» della scrittura del soggetto, e dei contenuti relativi. Tuttavia la modesta cifra «letteraria e di sostanza» di Gomorra non penalizza il contenuto coraggioso di cui ho detto sopra. E certo non ha penalizzato l’irresistibile sincretismo dell’opera che in chiave fiction televisiva mi risulta sia stata acquisita in questi giorni anche dalla cultura anglosassone. L’autore, confortato, lusingato, beatificato dalla nuova Accademia, si è sentito legittimato a mettere mano alla cultura, alla morale, al linguaggio, al pensiero e al vocabolario. E naturalmente alla politica. A porsi come esempio, come primo motore e nuovo legislatore. E come profeta laico. Ti dice: ascoltami, perché io sono molto vicino alla verità. Anzi, sono la verità. Fidati di me e diventa uno dei nostri. Ma ascoltami davvero, perché se rimani estraneo alla mia novella sarai un cittadino di serie B o C. Anzi, non sarai neppure un cittadino. Il “profeta” rappresenta dunque la punta emergente dell’Accademia, i cui membri hanno a loro volta buona visibilità e incidenza. Tutti soggetti attivi nel dichiarare il degrado e vettori di angosce maggiori. La parte finale, quella buona, della proposta, magari della soluzione, quella che servirebbe, non c’è. L’Accademia si ferma alla rappresentazione dell’angoscia e alla profezia. Sintomatici e ricchi di indizi sono il corpo e il volto del soggetto durante la sua performance televisiva. Un primo segnale si manifesta anche nella postura. Il continuo ondeggiare del busto è il riflesso della ricerca di un assetto fisico stabile e di quello psicologico: un’insicurezza dei contenuti. Il soggetto, mi si passi il termine, «molleggia». La fronte aggrottata nel momento della dettatura della verità è un ulteriore segnale di insicurezza. Nell’inconscio Saviano non è convinto della sua sentenza, ma la ricerca incessante del consenso e dell’autoaffermazione gli inibiscono la protezione della fase cosciente. Detto semplicemente: nessuna autocritica. Il Saviano presenta la fisionomica degli argomenti che porta, è gli argomenti che porta. E riesce ad accreditare una competenza superiore a quella dei comunicatori tradizionali: conduttori, speaker, specialisti, opinionisti, capiservizio. È come se l’Accademia, con la beatificazione, gli avesse attribuito anche una parvenza di Pentecoste non trascendente. Se lo status generale, triste, degradato e decaduto del Paese – fatto oggettivo – ti viene raccontato da un conduttore, i punti di angoscia possono essere molti; se te la racconta un profeta con Pentecoste, raddoppiano. Qualcuno dice: che dia indicazioni più serene, un minimo di speranza, di tanto in tanto. Ma Saviano conosce solo quell’acqua poco limpida, e in quello stagno nuota. Altrove non sopravvivrebbe. Trattasi dell’attitudine irresistibile a condannare (al rogo se esistesse ancora) chi non la pensa come lui. La chiave del concetto è doppia: si innesca da una presunta superiorità intellettuale, sempre per via di quella grazia, che non può misurarsi con un opportuno deterrente di ironia, della quale lo scrittore è del tutto sprovvisto, passando attraverso la cosiddetta teleologia, così definita dal Rizzoli Larousse: «(gr. télos, fine e lògos, discorso) ricerca del fine delle cose». In sostanza non interessa il racconto della notizia, ma il risultato che intendi ottenere attraverso la notizia. Di fatto, portare l’utente a pensarla come te. Ho rilevato, nella mia ricerca, comportamenti diversi, magari opposti del pubblico: Roberto Saviano certamente divide il gradimento. Una frase reiterata e precisa come una formula è questa: «Come lo vedo, cambio canale». A fronte dello “sgradimento”, annoto il successo delle sue apparizioni televisive. E rilevo, tattile, il coefficiente di angoscia collettiva che si incrementa di getto sui primi piani del Saviano, per poi assestarsi nelle ore successive con picchi comunque più alti rispetto al dato normale. Un soggetto che esercita un’azione così impattante non può che prestarsi a una reazione proporzionale. Saviano subisce attacchi violenti. Annoto gli interventi del signor Giuliano Ferrara, talentuoso goliardo della scrittura, con propensione al paradosso che ha insultato pesantemente lo scrittore-profeta. Viviamo in un momento di assenza di verità assolute e ogni opinione può valerne un’altra. Nessuna intelligenza mediatrice e super partes può assumersi il compito di un esatto giudizio di merito. Dunque le idee del Saviano e del Ferrara hanno lo stesso peso. Ma nel momento in cui lo insulti, il tuo antagonista, in automatico, diventa migliore di te. E Roberto Saviano non deve essere insultato. Al netto delle evoluzioni intervenute, rimane una personalità intellettualmente onesta, e in pericolo. Dunque da rispettare. Concludendo con delle sintesi, e dovendo attribuire delle definizioni, ed esponendomi alle critiche degli specialisti miei colleghi, mi rifarò a un lessico televisivo, e userò modelli semplici. Anche per ragioni di spazio. In un soggetto ancora giovane questo impatto accelerato e violento ha dunque provocato una serie di sindromi. Mi limito a due, prevalenti e connesse. La sindrome del giudizio e quella della giustizia. E in queste chiavi richiamo un nome esemplare, fondamentale, di un legislatore che fa testo: Dante Alighieri. Il fiorentino, grande vate ma sfortunato protagonista politico, nella sua Commedia giudicò e punì chi aveva opinioni, e appartenenze, diverse dalle sue. Immaginando pene eterne e dolorose. Non credo opportuno rapportare i giudizi e le punizioni applicati dal soggetto Roberto Saviano al contrappasso solenne e metafisico dell’Alighieri. Richiamerei piuttosto, sempre in termini di lessico e modelli televisivi, il cosiddetto «Tapiro d’oro», simbolo di condanna, inferta da tale Valerio Staffelli che non ha scritto Commedie, non è un Guelfo bianco, ma che rappresenta, per vocabolario e sembianze, la cultura e la comunicazione di questa epoca italiana. Naturalmente Roberto Saviano non manca di una parte di sostanza, impegno e intelligenza, ma il tutto risulta sovradimensionato dall’Accademia che lo ospita. Una piattaforma che è anche un sipario, con relativo pericolo di strappo. E sarebbe un peccato data la storia iniziale del soggetto. Se la mia lunga e riconosciuta esperienza potrà in qualche modo servire, mi dichiaro pronto per qualche seduta col Saviano e con i membri dell’Accademia che lo circondano. Se posso essere utile...