Corriere della Sera, 4 settembre 2016
A che punto è l’accordo sul clima
Hangzhou L’hanno chiamato Cop21 perché il trattato firmato a Parigi il 12 dicembre 2015 da circa 180 Paesi è arrivato alla ventunesima conferenza tra le parti, a parole convinte della necessità di ridurre, se non fermare, il cambiamento climatico.
Dopo calcoli complicati si è arrivati a stabilire che tenendo l’innalzamento della temperatura terrestre al di sotto dei 2 gradi centigradi (meglio se 1,5), si potrà evitare il peggio, vale a dire per esempio lo scioglimento completo dei ghiacciai, l’innalzamento del livello di mari e oceani, la desertificazione. I Paesi firmatari dovranno puntare «a raggiungere il picco delle emissioni di gas serra il più presto possibile» proseguendo con «rapide riduzioni dopo quel momento» per arrivare a «un equilibrio tra le emissioni da attività umane e le rimozioni di gas serra nella seconda metà di questo secolo».
L’accordo di Parigi, come molti nobili trattati internazionali non resta solo sulla carta ma entra in vigore legalmente solo al raggiungimento di una soglia di ratifiche formali da parte delle istituzioni politico-costituzionali dei Paesi, con voto in Parlamento, decreto governativo o presidenziale. Per il Cop21 è necessaria la ratifica di almeno 55 Paesi le cui emissioni sommate rappresentino il 55 per cento delle emissioni globali di CO2. Ma fino a ieri solo 24 Paesi avevano concluso il processo di ratifica, soprattutto piccole nazioni-isola che sono spaventate dall’innalzamento del livello degli oceani. E la loro quota di gas serra è solo dell’1,08%. Per aiutare i Paesi in via di sviluppo, convinti di aver inquinato pochissimo rispetto ai ricchi occidentali, il Cop21 ha previsto un fondo di 100 miliardi di dollari di finanziamenti «verdi» all’anno.
La Cina è il primo inquinatore del pianeta, con il suo 24% di quota di gas serra sprigionati da un sistema industriale mastodontico, sviluppato senza badare all’ambiente per produrre a ritmi forzati, estrarre carbone e bruciarlo per alimentare centrali elettriche e catene di montaggio di quella che per trent’anni è stata nota come la Fabbrica del Mondo (a basso costo). I cinesi ancora oggi ricavano il 70 per cento circa della loro elettricità dal carbone. Gli Stati Uniti, meno numerosi e tecnologicamente più avanzati, sono al secondo posto con il 14% dei gas serra. I negoziatori della Casa Bianca hanno promesso di tagliare entro 15 anni tra il 26 e il 28 per cento le emissioni. Il governo cinese invece si è impegnato a ridurre le emissioni dal 2030, perché sostiene di dover fare i conti con un Paese ancora in via di sviluppo e alla ricerca di una «moderata prosperità».
Il 24 per cento dei gas cinesi, sommati al 14 degli americani e all’1,08 delle 24 isole arriva al 39% e 26 Paesi. Ma per arrivare alla magica formula 55% e 55 Paesi basterebbe l’Unione Europea con il Regno Unito fino a quando non scatterà il Brexit. Gli europei hanno un 12% di quota nelle emissioni globali. La Commissione di Bruxelles, secondo alcuni esperti, potrebbe legalmente ratificare l’accordo a nome dei membri, dopo un voto del Consiglio europeo, ma alcuni Stati invocano la preventiva ratifica nazionale.
C’è poi il timore che l’obiettivo di tenere l’innalzamento della temperatura sotto la soglia dei +2 gradi centigradi sia forse già irraggiungibile. Per 14 mesi di seguito gli osservatori metereologici hanno registrato il mese più caldo di sempre nei loro archivi storici. Aspettare 15 anni per raggiungere il picco delle emissioni in Cina potrebbe dunque far saltare i piani di contenimento.
Sul riscaldamento terrestre c’è nonostante tutto ancora scetticismo. Obama ha ratificato con decisione presidenziale l’intesa sostenendo che non è un vero e proprio trattato internazionale, da sottomettere al voto del Congresso, ma un «accordo esecutivo». «Credo che l’accordo si rivelerà un punto di svolta per il nostro pianeta, la storia giudicherà decisivi gli sforzi di oggi» ha detto il presidente americano. Ma il solito Donald Trump, che definisce nei comizi il riscaldamento terrestre una «bufala totale» o «una balla inventata dalla Cina», ha già annunciato che rimetterà in discussione l’adesione americana se sarà eletto presidente il prossimo 8 novembre. I cinesi, invece, non debbono fare i conti con queste «incertezze» della democrazia occidentale. La parola di Xi Jinping è legge. Basta poi applicarla.