la Repubblica, 4 settembre 2016
La storia di una barba e di una matita ovvero Eco raccontato da Pericoli
«Ecco, quaesto è Umberto. Ma non so spiegare perché». Le mani di Pericoli incorniciano un segmento della fronte, la scriminatura dei capelli, una paio di linee curve che danno vita a Umberto Eco. Un miracolo che si compie sul foglio bianco, all’interno di uno studio in travertino sospeso sulle vallate marchigiane. Da venticinque anni Tullio Pericoli trascorre l’estate nella sua casa di pietra rosa vicino ad Ascoli Piceno. Tutt’intorno corrono le colline che ha raccontato mille volte nei suoi lavori a olio e ad acquerello, un paesaggio integro di sfacciata bellezza a confronto con le macerie lasciate dal terremoto pochi chilometri più in là. Come se la natura dipendesse dai segni dell’artista, non dai sommovimenti della terra. E lo stesso Pericoli sembra essersi disegnato da sé, a dispetto dell’ottantesimo compleanno annunciato da una poco credibile anagrafe il prossimo 2 ottobre. Anche la lunga amicizia con Eco passa attraverso la sua mano e ora rivive attraverso un centinaio di ritratti realizzati non solo per i giornali e per le copertine dei romanzi ma anche in occasioni private, feste, anniversari e passaggi di secolo. Più che una rassegna di disegni, la storia di una maliziosa complicità tra il ritrattista e il suo soggetto. E forse qualcosa di più, la storia di un’amicizia filtrata da una faccia.
E da una barba che nasconde un sacco di cose.
Pericoli, la vostra amicizia porta una data di nascita.
«Sì, tutto comincia da una lettera con la quale Umberto mi ringraziava per la sua caricatura uscita nella rubrica
Tutti da Fulvia il sabato sera.
Era il 14 giugno del 1977. Mi chiese il ritratto originale».
Cosa la colpiva della faccia di Eco?
«Mi piaceva soprattutto giocarci perché era Umberto stesso a suggerirmi il divertimento. Lui ha sempre giocato con tutto: con la sua straordinaria cultura, con i personaggi studiati, e anche con gli amici. E la sua faccia è diventata simbolicamente il suo modo di esprimersi e di comunicare. Un paio di occhiali, un bel naso e la barba».
SIMONETTA F I O R I
Ricorda i tratti del cartoon.
«Sì, era come un pupazzo con cui ci siamo divertiti entrambi in tutti questi anni. Ne ho fatto perfino una statuina di cartone con una linguetta in basso che gli fa muovere gli occhi. Uno dei miei disegni più riusciti è quello in cui Umberto regge sul naso se stesso. Oppure fa piroettare sempre sulla punta del naso Kant o Cervantes, come se fossero degli acrobati giocosi».
La sua faccia mostra molte varianti.
«Sì, una volta Umberto fece l’elenco dei vari modi in cui lo ritraevo: Tullio mi disegna senza naso o con una palla di pongo, privo di sopracciglia o con una selva pilifera da linguista russo, talvolta con una chioma lussureggiante e arruffata e talaltra con un magro ciuffo che mi spiove sull’osso lacrimale; eppure sono sempre maledettamente io».
Cosa lo rendeva maledettamente Umberto Eco?
«Non lo so. So solo che una volta, durante una serata con amici, l’ho disegnato a occhi chiusi. Riuscivo a controllare il gesto della mano senza guardare, sapevo dove fermarmi e come andare avanti.
Come se Umberto fosse entrato nelle mie dita: quello che usciva sul foglio era sempre lui, talvolta sorprendendomi».
Un’idea quindi fortemente interiorizzata. Tanto che per i cinquant’anni di Eco lei ha pensato di disegnare le sue cinquanta facce, una per ogni anno. E poi ha continuato fino agli ottanta. Cosa cercava?
«Volevo capire quando quella faccia è diventata Umberto Eco. La trasformazione della fronte, i primi capelli in testa, i pelucchi sul mento, fino ad arrivare alla fisionomia con cui è diventato celebre».
Una volta lei ha sostenuto che la bocca rivela l’anima più dello sguardo. Cosa rivelava la bocca di Eco?
«Beh, intanto è una bocca mascherata dalla barba. Intorno alle labbra esiste un paesaggio enorme – i piccoli segni procurati dal modo di parlare, sorridere, giudicare – che se coperto dalla peluria viene completamente annullato. Poi bisognerebbe chiedersi perché uno si fa crescere la barba».
Gliel’ha mai chiesto?
«No. Come non gli ho mai chiesto perché gli piacesse tagliarsela, cosa c’era dietro questa sua voglia di cambiare faccia. Sapevo che entrare in argomenti più personali non era cosa gradita».
Però lei con la barba di Eco ci ha sempre giocato.
«Non mi piaceva la sua faccia senza barba. Glielo dicevo apertamente, così lui scherzava: prima di tagliarla devo chiedere il permesso a Tullio. Una sera a Capodanno arrivai a disegnargliela sul volto con un tappo annerito dal carbone».
Ma perché?
«Senza barba non era più lui. Diventava improvvisamente più esplicito nell’aspetto. E questo a me non andava bene perché sapevo che lui non voleva esserlo. Come se lui si scoprisse. E io sapevo che era l’ultima cosa che avrebbe voluto».
La barba come una forma di protezione.
«Umberto aveva una tripla e quadrupla corazza intorno a sé ed era impossibile penetrarla. Anche nella nostra amicizia sono stati rari i momenti in cui si sia lasciato andare. Non potevo andare da lui e dirgli: sai Umberto, mi ha lasciato la mia fidanzata. Mi avrebbe raccontato una barzelletta».
Ne raccontava molte. Secondo lei cosa rappresentavano?
«Era un suo modo di entrare in relazione con il mondo. Ricordo un pomeriggio in compagnia di una giovane amica rimasta paralizzata in un incidente. Umberto le si sedette vicino e per tutto il tempo la intrattenne con le sue storielle. Era il suo modo per dirle: ti voglio benissimo e capisco tutte le tue sofferenze. Ma preferiva parlare un’altra lingua».
Anche tra voi c’era poca confidenza.
«C’era una forte vicinanza, ma raramente lasciava spazio a confessioni private. Quando ebbe il successo internazionale per il Nome della rosa mi manifestò un po’ del suo orgoglio: Capisci Tullio, avere un palco per la prima della Scala fa piacere, ma ottenerlo dal Metropolitan fa ancora più piacere. Ecco, questa è stata la sua manifestazione più personale in oltre quarant’anni di frequentazione».
Eppure Eco le riconosceva la capacità di penetrarlo negli aspetti più intimi. L’ha anche scritto: “Pericoli è un grande ritrattista che punta all’anima. Il soggetto viene visto dall’interno, ma non è chiaro se dall’interno di lui, di lei, o dall’interno di Pericoli che è diventato l’altro”.
«Sì, ma mentre mi riconosceva queste qualità lui non s’è mai espresso sul suo “interno”. Non parlava mai di sé neppure nei romanzi, dove il gioco intellettuale prevale sui sentimenti. Anche nei miei Ritratti arbitrari – dove accanto a ciascun disegno figura una sorta di autoritratto dello scrittore rappresentato – l’autoscatto di Umberto è quello più elusivo. Parla del suo aspetto fisico, della pancia, della sua pelle, del suo peso ma non della sua interiorità. Non saprei come chiamarla: difesa o sottrazione».
Secondo lei perché?
«Sicuramente incideva la sua origine piemontese, alessandrina, che lo induceva a riservatezza. Ma c’era qualcosa di più, come se la sua vita interiore fosse qualcosa di molto segreto e inavvicinabile».
Ma lei ha provato a inoltrarsi in quel territorio?
«Sì, ma ne ricevevo risposte meccaniche e liquidatorie. Ricordo una sera a casa Crespi, nell’ultimo Natale passato insieme. Umberto se ne stava seduto in disparte. Così ne approfittai per parlare con lui di cose che mi stavano a cuore: gli anni che passano, come cambia la mente, il futuro in relazione al passato. A un tratto si voltò di scatto fulminandomi: ma allora stai parlando sul serio? Come a dire: sei un pazzo a parlare di questi temi con gravità».
Forse il gioco era anche una modalità scelta per non raccontare troppo di sé.
«E io al gioco mi sono fermato. Non ho mai cercato di svelare Umberto fino in fondo. Continuo a pensare che la nostra faccia sia un racconto scritto ogni giorno da noi stessi in modo inconsapevole. Il dovere del ritrattista è leggere questo racconto nel suo senso più autentico. E poi andare a riferirlo al proprietario del volto. Con Umberto questa operazione non l’ho mai tentata davvero. Perché da una parte mi bastava giocare. Dall’altra ho pensato che non fosse una cosa da fare».
Ne ha voluto rispettare il mistero.
«Sì, la caricatura finisce per giocare con la sua straordinaria cultura. Ma la vita, le sofferenze, gli amori restano fuori, qualcosa di chiuso in un baule senza chiave».
L’amicizia per un ritrattista è un fattore di complicazione?
«Sì, lo è. Se il compito del ritrattista è dire alla persona ritratta “ecco chi sei veramente, sappilo anche tu”, con un amico procedi con cautela, ti chiedi se sia indelicato. Però nel caso di Umberto il gioco garantiva libertà reciproca: al gioco non ci sono limiti. Non avevo paura di offenderlo facendogli gli occhi storti».
Non temeva il suo giudizio?
«Sì, ma non sui ritratti. Temevo il suo giudizio in generale perché ci tenevo molto. Umberto ti costringeva sempre a un confronto stimolante, così da una parte era fonte di continue sollecitazioni, dall’altra il dialogo con lui non era mai rilassante, completamente sereno. Ti sentivi sempre sotto valutazione. Lo avvertivo come un padre severo e necessario. La sua opinione aveva sempre un fondo di serietà, di intelligenza e di verità che funzionava come una piccola àncora. Sapere che Umberto ci fosse mi rassicurava».
Che rapporto aveva con la propria immagine?
«Ottimo. Quando gli proposi di mettere in mostra i suoi ritratti a Camogli rifiutò, ma solo perché gli sembrava una manifestazione di narcisismo – il Festival della comunicazione l’aveva inventato lui. Però gli piaceva l’idea di raccoglierli in volume. Solo una volta non gli piacque un mio disegno».
Quale?
«Non me lo ricordo. So che me lo disse alla sua maniera, aprendo come sempre una finestra su qualcosa di sconosciuto. No, Tullio, non mi ci ritrovo, però vedo un mio bisnonno, una mia zia e mio nonno. Una frase che mi aiutò a mettere a fuoco un passaggio fondamentale del ritrarre, che è come strappare una pianta dal suo terreno per portarla da un’altra parte. Ma quando la sradichi devi fare attenzione alle sue radici perché tanto meglio rifiorirà quanto più lunghe e integre sono le trame del passato. Eco nel disegno non aveva trovato se stesso ma il suo essere stato nella faccia del bisnonno e della zia. Lo presi come un complimento».
Cosa ricorda degli ultimi tempi?
«L’ho visto cambiare, diventare ancora più attento e affettuoso con gli amici. Umberto è stato straordinario anche per come ha vissuto la sua morte. Non parlava mai della sua malattia. Solo piccoli indizi. Una sera a cena, nel novembre scorso, a un certo punto affonda il coltello in un vasetto di burro per spalmarlo su un minuscolo pezzo di pane. “Ma Umberto cosa fai, ti fa male”, dissi. “Appunto per questo”, e se lo mangiò. Fu lì che capii che sapeva tutto. Come se volesse affrettare la fine».
Lei Pericoli non s’è accomiatato da Eco con un disegno. Forse non voleva finire il gioco cominciato quarant’anni prima.
«Non so. Quando sono andato casa sua, il giorno dopo la sua morte, non volevo vederlo. Temevo che il mio ricordo visivo ne rimanesse segnato. “Ma vai via senza salutare il nonno?”, sulla porta mi raggiunse il nipote Emanuele. Mi accompagnò nella sua stanza e ancora gli sono grato. Incorniciata da un parallelepipedo la fisionomia di Umberto era rassicurante. Dalla linea di orizzonte della cassa emergevano la pancia e la sua faccia, proprio come quando si rilassava in piscina. Un’immagine galleggiante, pacificata. Era Umberto Eco che faceva il morto nell’acqua».