la Repubblica, 5 settembre 2016
La prima volta mondiale del Kosovo. Quando il calcio scavalca la politica
Di solito succede il contrario, ma stasera alle 20.45, quando nello stadio di Turku comincerà Finlandia- Kosovo, partita valida per le qualificazioni ai mondiali in Russia, sarà il calcio a commettere una plateale invasione nel campo della politica. Arriva a ridosso, il calcio, degli altri sport che hanno accettato il minuscolo Stato balcanico alle Olimpiadi di Rio de Janeiro (una medaglia d’oro nel judo 52 chili per Majlinda Kelmendi, battuta in finale l’azzurra Odette Giuffrida). Però è il pallone a solleticare in modo ancora più potente l’orgoglio di un Paese che si dibatte almeno dal 1999, anno della guerra Nato contro la Serbia, nel limbo di uno status controverso e contestato. Né il monco riconoscimento internazionale del 17 febbraio 2008 ha sanato una situazione giuridica confusa se solo 112 Paesi Onu hanno assecondato gli aneliti indipendentisti di Pristina. Mancano all’appello in 72. E ce ne sono di non irrilevanti. A cominciare dalla Serbia che considera il Kosovo una sua provincia, la confinante Bosnia. La Spagna che teme l’aprirsi del vaso di Pandora delle simili aspirazioni di catalani e baschi. La Cina e la stessa Russia che, ipotesi di scuola, sarebbe costretta in caso di qualificazione a ospitare sul proprio suolo una nazione che per Mosca non esiste sulla carta geografica.
Si potrebbe obiettare che il calcio supplisce, in questo caso, alla lentezza della politica. Se non fosse che il lungo tergiversare dei contrari è la conseguenza della precipitosa decisione dell’America di Bill Clinton (spalleggiata anche dall’Italia di D’Alema) di avviare con le bombe l’incompiuto processo, foriero in futuro di possibili contenziosi. “Perché il Kosovo sì e la Crimea no?” ha urlato Putin. E perché no le Repubbliche caucasiche filorusse staccatesi dagli Stati sorti dopo la dissoluzione dell’Impero sovietico. Perché non Barcellona o i fiamminghi del Belgio in un effetto domino provocato dal richiamo di una “heimat” sempre più piccola?
Nell’implosione della ex Jugoslavia degli anni ‘90, a cui lo sport diede il suo contributo in termini di consenso reclamato agli atleti dai leader secessionisti, erano entrati in conflitto due principi: inviolabilità delle frontiere e autodeterminazione dei popoli.
In virtù del primo Croazia e Bosnia hanno mantenuto i loro confini a discapito delle exclave serbe presenti sui loro territori. Appellandosi al secondo, gli albanesi del Kosovo, giuridicamente provincia serba, hanno ottenuto l’indipendenza. Ma i serbi non potevano avere sempre torto in questa interpretazione del diritto a geometria variabile. E questo al netto delle accuse al Kosovo, corroborate spesso dai fatti, di essere uno Stato-mafia dominato da clan tribali e il cui suolo è diventato area franca per i traffici di armi, droga, esseri umani.
Fifa e Uefa hanno varcato, chissà quanto consapevoli, i cancelli di questo ginepraio e contribuito a rimettere in circoli i fantasmi di un passato che non passa. Per i serbi il Kosovo è la terra del primo patriarcato ortodosso a Pec (Peje in albanese, vi è nata proprio la medaglia d’oro Kelmendi), dei monasteri ortodossi culla della loro civiltà. II luogo della “gloriosa sconfitta” nel giorno di San Vito del 1389 quando le truppe del principe Lazar Hrebeljanovic furono sconfitte dal sultano Murad I, e iniziò il lungo dominio ottomano in parte dei Balcani. Del Kosovo fu deputato al parlamento di Belgrado quel Zeljko Raznatovic, detto Arkan, campione serbo della pulizia etnica, reclutatore nella curva della Stella Rossa dei miliziani più sanguinari. Lo stadio di Pristina, la capitale, spesso è stato usato come set per manifestazioni politiche come l’installazione di un artista che vi ha steso 5.000 vestiti in ricordo delle donne stuprate durante l’ultimo conflitto.
Uniche precauzioni prese dagli organi del calcio mondiale, l’inserimento del Kosovo nel gruppo I, con squadre che non dovrebbero rappresentare grossi problemi geopolitici: oltre alle neutralissime Finlandia e Islanda, l’Ucraina (in guerra con la Russia ostile a Pristina), la Turchia (patria di correligionari musulmani) e infine la Croazia (storica l’ostilità verso i serbi). E pure il divieto di giocare le partite in casa a Kosovska Mitrovica, come è successo durante alcune partite amichevoli, la città di confine con la Serbia, abitata anche da serbi, dove nemmeno i soldati della Kfor, la forza multinazionale di pace, si è detta in grado di garantire l’ordine pubblico. Non adeguato agli standard internazionali lo stadio della capitale (stanziati 4 milioni di euro per ristrutturarlo, sarà pronto a giugno) le partite in casa saranno disputate in Albania, a Scutari. Naturalmente del caos generato non sono responsabili gli atleti. Semmai vittime di un pasticcio identitario che, d’ora in poi, li obbligherà a scegliere. I migliori di loro hanno già vestito i colori di altri Paesi (Albania, Montenegro, Svizzera) come Shaqiri, Behrami, Cana, i fratelli Xhaka, Januzaj. Fino al caso del centrocampista del Chievo Hatemaj, nazionale finlandese che stasera ha scelto non giocare per intuibili imbarazzi. Capitano, il portiere del Pisa Samir Ujkani, già al Novara e al Palermo. Col Kosovo, il calcio fa il suo gioco. Stavolta, è un gioco più grande di lui.