La Stampa, 5 settembre 2016
Checché se ne dica i migranti non sono aumentati. Lo dicono i numeri
La questione migranti sta tutta in quello scarto tra il fenomeno sbarchi e la percezione del medesimo da cui discendono emergenze reali o proiettate, concretissime paure, dichiarazioni d’intenti politici e accordi internazionali. A che punto siamo a un anno dall’estate del nostro scontento, quando sulle spiagge greche scoprimmo l’esodo della disperazione da un milione di persone, ne piangemmo istintivamente e rimpiangemmo in breve di aver pianto senza ragionare troppo? I dati parlano di un’onda che sale e scende ma sostanzialmente resta ai livelli del 2015. Tanto l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr) quanto l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) confermano che al netto di un numero di vittime più elevato (negli ultimi 8 mesi è morta una persona ogni 42 lungo la traversata dal Nord Africa all’Italia rispetto all’uno ogni 52 dell’anno passato), gli arrivi a fine agosto erano a quota 115 mila contro i 116 mila dell’inizio dello scorso settembre.
L’accordo con Ankara
La differenza è nelle rotte, perché da quando a marzo l’Ue ha firmato il controverso accordo da 3 miliardi di euro con Ankara, quella balcanica, la stessa su cui morì il piccolo Alan Kurdi, è pressoché chiusa. Significa che non essendosene nel frattempo aperte altre, tipo la un tempo ipotizzata rotta albanese, i barconi partono quasi tutti dalla Libia (o, a varia intermittenza, dall’Egitto) e approdano in Italia.
Il protocollo turco fa storcere più di un naso agli umanitari ma anche a chi adesso rimpiange di aver appaltato le frontiere europee a un Paese dalla tenuta democratica tutt’altro che stabile. Per il momento però, al prezzo di chiudere gli occhi sulle condizioni di quanti vengono bloccati dalla polizia di Erdogan, l’argine pare tenere. Secondo il portavoce dell’Oim Flavio di Giacomo gli sbarchi in Grecia sono oggi tra i 50 e i 150 al giorno, nulla rispetto ai 4000 quotidiani di 5 mesi fa. Si tratta soprattutto di siriani, afghani e iracheni: «Sono quelli bloccati là perché non riescono a prendere altre strade. Fino a 2 anni fa i siriani arrivavano anche in Italia, ma erano quelli più facoltosi, perché il viaggio per andare fino in Libia è molto caro. Ora quasi nessuno di loro può più permettersi la spesa e intanto la Libia si è fatta pericolosissima». Si calcola che le probabilità di perdere la vita attraversando il Canale di Sicilia siano 10 volte superiori di quelle sfidando il mare tra Turchia e Grecia.
Verso la salvezza
In Italia il flusso riguarda principalmente nigeriani (con un forte aumento delle donne), sudanesi, ghanesi, ragazzi della Costa d’Avorio. Fino a qualche mese fa c’era una costante presenza di eritrei, ma tra luglio e agosto il calo è stato forte, circa 10 mila persone in meno. Raccontano alcuni richiedenti asilo che da una parte sono aumentati i controlli in Sudan e dall’altra gli eritrei, in buona parte cristiani, hanno una enorme paura di transitare dalla Libia e preferiscono il passaggio più lungo dall’Egitto, dove però, dopo una prima fase di lassismo culminata a maggio con il naufragio di due grandi barconi partiti appunto da Alessandria d’Egitto, la polizia sembra aver ripreso a pattugliare (la giornalista eritrea Meron Estefanos, che dalla Scozia aiuta i connazionali in mezzo al mare, dice che le prigioni egiziane si stanno riempiendo di «clandestini»).
Resta l’accordo ambito con la Libia, dove la guardia costiera controlla più di prima e dove si sta investendo sul training. Ma ipotizzare una sponda stabile con Tripoli è per ora a dir poco avveniristico.