Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2016
Come ci si depilava nel Rinascimento
Se, come dice Adolf Loos, «la moda è lo stile del tempo presente», nessuno meglio di uno storico è in grado di parlarne, senza scadere nel gossip triviale o nell’aneddotica banale. È quanto fa, meritoriamente e intelligentemente, Alessandro Marzo Magno nel saggio Con stile, un excursus agile e brillante sul costume e i costumi dall’antichità a oggi, affabulati e ricuciti non in ordine cronologico ma spaziale: i capitoli, infatti, corrispondono alle parti del corpo, dalla «testa» ai «piedi», passando per petti (pure quelli rifatti), bacini, tronchi e arti.
Casca male, invece, il sottotitolo, «Come l’Italia ha vestito (e svestito) il mondo», poiché la fortuna dell’haute couture nostrana è piuttosto altalenante: massima negli anni Ottanta del 900 (in cui nasce la figura dello stilista: Armani, Versace, Valentino...), buona tra le due guerre e negli anni Cinquanta (Elsa Schiapparelli, Gucci, Fendi, Prada...), mediocre oggigiorno e scarsissima in altri frangenti storici, come, ad esempio, nel 1589, anno in cui il Belpaese si fece scippare il primato della produzione di calze, o quando nell’800 perse i cosmetici e nel 600 fu «costretta a cedere lo scettro alla Francia per la moda femminile e all’Inghilterra per quella maschile».
La storia del costume confezionata da Marzo Magno non riguarda solo il costume, gli abiti e gli accessori, ma spazia fino al trucco e parrucco, ai tessuti e alle fogge, a profumi e unguenti, al bon ton e ai peli superflui: nel 400 era diffusissima la depilazione inguinale integrale, ben prima della scoperta delle Americhe e della ceretta brasiliana. Ancora oggi i turchi musulmani seguono alla lettera un hadit (prescrizione) religioso: «Cinque cose fanno parte della natura stessa dell’essere umano: la circoncisione, il fatto di rasarsi i peli pubici, il fatto di tagliarsi i baffi, di tagliarsi le unghie corte e di depilarsi le ascelle».
Se nel 500 Baldassarre Castiglione condannava come effeminati gli uomini che «si crespano i capelli e si spelano le sopracciglia», gli antichi romani, viceversa, non portavano il cappello perché poco virile. Malizioso, ma non pruriginoso, l’autore taglia e scuce pure una serie di cliché, in primis legati al velo («Così come le veneziane del Cinquecento coprivano il volto e scoprivano il seno, le donne arabe di oggi – seppur nella specifica categoria delle danzatrici – nascondono la faccia, ma mostrano il ventre nonché l’ombelico»), o smonta la panzana della bandana dei pirati, diffusa in modo truffaldino da un pittore ottocentesco.
Da sfatare persino il mito delle parrucche eleganti, che nacquero a causa della calvizie, non per motivi estetici, mentre è da celebrare il talento dell’umile Ferragamo, che, facendo di necessità virtù, trasformò «un’oggettiva schifezza, come le suole ortopediche di sughero, in un oggetto di moda». Più o meno negli stessi anni, Coco Chanel sdoganava la tintarella come très chic, molti secoli dopo il vezzo di tingersi i capelli di biondo: nel 500 le veneziane ne andavano pazze, tanto da «lavarsi la testa con l’urina stantia». La magrezza furoreggiava già nella Roma imperiale, «suscitando la riprovazione di Terenzio perché a forza di diete le donne “si riducono a fasci di verghe”». Le mode passano, ma poi ritornano.