Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2016
Obama e il suo ultimo summit globale
Il multilalateralismo nell’era del caos è sotto attacco senza che i critici abbiano alternative a portata di mano. Ben venga dunque questo G20 cinese a Hangzhou, l’ultimo di Barack Obama, il Presidente americano che nei primi due anni del suo mandato ha formalizzato gli incontri in un appuntamento annuale. È inevitabile dunque, in questo contesto post-Brexit, fare un bilancio.
Per l’America innanzitutto, che si trova a un crocevia elettorale; per Obama che ha istituito il baluardo più avanzato per la gestione multilaterale della globalizzazione e della pax americana. Infine per noi tutti, che troppo spesso alle strutture del multilateralismo associamo suprusi e violazioni delle rispettive sovranità nazionali.
L’America stessa si trova davanti un bivio elettorale che mette in dubbio la storica e consolidata vocazione internazionalista del Paese. Donald Trump vorrebbe muovere gli Stati Uniti nella direzione opposta a quella che Washington ha seguito da sempre, nella direzione cioè dell’isolazionismo, della chiusura. Se gli elettori sceglieranno Trump, il fragile multilateralismo del nostro tempo rischierà di subire un colpo mortale. Se sceglieranno Hillary Clinton si può pensare un rilancio del multilateralismo, magari introducendo tutte le variazioni e correzioni di cui l’apparato sovranazionale attuale ha bisogno.
Puntualmente, il G20, con la sua agenda che ha in primo piano la gestione dell’economia globale, è diventato anche un forum politico, come gruppo, ma anche per le opportunità (o le mancate opportunità!) che derivano dalla possibilità di incontri informali bilaterali o in piccoli gruppi, a livello di capi di stato e di governo.
Se a Obama spetta il merito di aver issato al livello più elevato lo sforzo storico americano per una governance multilaterale, ha anche il demerito di non aver sfruttatto fino in fondo il potenziale del multilateralismo, che richiede sempre un polso fermo. Di aver ceduto ad esempio alla tentazione dell’idealismo, come nel caso delle primavere arabe. E c’è un episodio specifico che dà la misura di quanto questi incontri siano importanti, ricchi di potenziale ma anche molto difficili e pericolosi. A parte i comunicati già scritti, c’è sempre l’opportunità di introdurre qualcosa di nuovo, magari anche partendo da un contesto bilaterale. È stato il caso del G20 di San Pietroburgo del 2013. Obama era in difficoltà per le sue dichiarazioni bellicose sulla linea rossa nella sabbia, violata da attacchi chimici del governo siriano di Assad contro la popolazione civile. Obama raccolse l’offerta di mediazione di Putin – la Siria avrebbe rinunciato alle armi chimiche in cambio di una rinuncia americana all’attacco – senza chiedere contropartite politiche immediate e senza prevedere il disastro umanitario e geopolitico che sarebbe seguito, con il rafforzamento di Assad al potere a Damasco e quello della Russia in Medio Oriente. Va chiarito dunque che i politici possono sbagliare e che la colpa non è necessariamente dei consessi che portano a decisioni sbagliate.
Questo ci porta ai suprusi che percepiamo in arrivo dal multilateralismo e alle molte aspettative immediate che riponiamo in un gruppo che ha per definizione il mandato di affrontare e impostare le soluzioni a problemi di lungo termine. Si chiede ad esempio che il G20 risolva con la bacchetta magica il contenzioso Apple-Ue/Irlanda e più in generale il problema dei paradisi fiscali, transfer prices e doppia imposizione. È un problema aperto dagli anni Settanta e afflitto proprio dai troppi interessi fiscali nazionali. Non possiamo chiedere al G20 di risolvere una questione così complessa in tre giorni. Ma possiamo chiedere di fare dei passi in avanti nel groviglio di contraddizioni che appesantiscono il sistema fiscale internazionale. Prendiamo atto invece dei risultati positivi ad esempio dei progressi compiuti nell’ambiente. Proprio ieri prima dell’avvio formale del G20 Obama ha firmato con il suo ospite cinese Xi l’adesione agli accordi sull’ambiente di Parigi. Si è trattato di una pietra miliare a cui al G20 e in contesto bilaterale si è lavorato da anni, in parallelo con gli sforzi delle Nazioni Unite. E, non so a voi, ma a me, il vedere insieme ieri alla residenza di stato sul bellissimo lago occidenalte di Hangzhu Obama, Xi e il Segretario Generale Ban Ki Moon presenziare alla cerimonia di firma insieme, ha dato un senso di rassiccurazione, non certo di preoccupazione, come sentono in troppi nel crescente movimento del populismo a buon mercato.
Certo per andare avanti, la prima risposta dovrà venire dalle elezioni americane. Auguriamoci che gli elettori americani, spesso molto religiosi non dimentichino la storia biblica della Torre di Babele. E visto che è Domenica, ricordiamola: alla costruzione della torre di Babele partecipavano rappresentanti di tutti i popoli del mondo che parlavano allora la stessa lingua. Fu dopo la dimostrazione di egoismo e di arroganza di chi voleva arrivare con la torre al Cielo Divino, che Dio punì l’umanità restituendo ai popoli che lavoravano, lingue incomprensibili fra loro. Non capendosi più, la Torre non fu mai terminata. Con il multilateralimo il ponte per il superamento delle molte lingue e culture e interessi che ci restano dai tempi biblici lo abbiamo. Senza quel ponte, senza un’architettura multialterale che poggia su Onu, Fmi, Banca Mondiale, Wto, Apec, Ue, Nafta, G7, e certamente il G20, senza il linguaggio comune dell’internazionalismo, non possiamo che pronosticare un gravissimo peggioramento delle criticità politiche, economiche e umanitarie ci affliggono.