Il Messaggero, 4 settembre 2016
Shostakovich, umiliato e offeso
«Tutti gli sforzi l’idealismo e la speranza, il progresso, l’arte, il sapere la coscienza, tutto è finito così, con un uomo accanto all’ascensore e la sua piccola valigia con le sigarette, un cambio di biancheria, fermo in attesa di essere portato via». Quell’uomo, sempre parzialmente sconfitto e umiliato, la cui arte ha continuato a esprimersi nonostante il potere che l’ha sempre azzannato, è Dmitri Shostakovich; é il compositore sovietico, protagonista del monologo, come un breve resoconto romanzato, del romanzo di Julian Barnes Il rumore del tempo (Einaudi).
La sua è la crisi numero uno, mentre è in corso la Grande Purga. Sul pianerottolo, nel cuore della notte, lui attende l’ascensore che porterà la polizia segreta. La sua Lady Macbeth di Mtsensk non è piaciuta al «potente sole della patria Stalin infallibile responsabile di ogni cosa». Il compositore è stato denunciato, «la musica deve scaldare il cuore del popolo come il carbone scalda i corpi dei minatori». Gli ingranaggi della burocrazia assassina sono in agguato. Si può finire solo in un modo: un interrogatorio, la confessione, una firma, la pallottola alla nuca. Shostakovich pensa al groviglio di circostanze che hanno decretato la sua caduta, sembra definitiva. Ricorda il disastroso debutto con la Prima Sinfonia, quando all’aria aperta i cani si erano messi ad abbaiare. «Ora con la sua musica abbaiano i cani più grandi», scrive Barnes. «La storia si ripete: la prima volta come farsa, la seconda volta come tragedia».
Il rumore del tempo è un racconto dove apparentemente non accade molto. C’è la prima scena, l’uomo che aspetta l’ascensore, un’angoscia si moltiplica. Poi, nella seconda, lo stesso uomo si siede davanti ad un pianoforte, nella terza è in macchina. Tutto si svolge nel brusio della mente di Shostakovich che alterna i ricordi con le ferite del presente, analizzando ogni volta le proprie debolezze e il rapporto con il regime. E salta da un decennio all’altro, con ingannevole snellezza, condensando ogni volta il ritmo, il suono, l’acuminata sensazione di un tempo interiore che scorre, inesorabilmente. Attraverso i frammenti di un’esistenza vista allo specchio, quel tempo produce i grandi interrogativi che, nel tormentato vissuto di Shostakovich, ha sullo sfondo fondamentali questioni.
POTERE
Come la complessità della vita intellettuale sotto la tirannia, il funzionamento del potere rispetto all’autonomia dell’arte, i limiti del coraggio e della resistenza individuali, le richieste intollerabili che toccano l’integrità della persona e della coscienza.Il secondo disastro è l’«assoluta umiliazione e il disonore morale» del viaggio in America del 1948, come rappresentante sovietico al Congresso Mondiale della Pace. Giudicata persona ancora capace, se opportunamente guidata, di «produrre musica chiara e realista», il compositore è costretto a leggere discorsi scritti dai burocrati. In essi è critico verso il suo lavoro di compositore e verso Stravinskij che in realtà ammira. La speranza è che quelle parole siano intese per ciò che sono, cioè dettate dalla sua condizione di artista pressato dal regime. Ma tra il pubblico un agente della Cia lo incalza e lo costringe a ribadire la sua approvazione alle idee di Zhanov che era stato il suo grande inquisitore e che, in fatto di musica «ne capiva quanto un maiale ne può sapere di agrumi».
DISASTRO
Infine il terzo disastro, quando, con tre premi Lenin alle spalle, una scampanellata non annunzia più la minacciosa ombra notturna, ma il messo zelante che gli porta l’articolo scritto per lui dai burocrati. Al terrore di Stalin si è sostituito il regno di Nikita la pannocchia e anche la tipologia dei servi del regime è modificata: l’untuoso funzionario del momento riesce ancora a vincere ogni resistenza, ottenendo da Shostakovich la capitolazione totale, l’iscrizione a un partito che ha causato milioni di morti.
Il rumore del tempo prende a prestito il titolo dalle memorie di Mandel’stam, uno dei critici più feroci di Stalin che sfidò con il suo famoso Epigramma. «Al proprio destino non si sfugge», dice lo Shostakovich di Barnes. Il suo non è mai il gesto eroico di un martire come quello di Mandel’stam e tanti come lui. Per essere un eroe, basta anche il coraggio di un attimo, ma il vigliacco ha davanti a sé una carriera che dura tutti i suoi giorni e non grazia dal «tormento della vita».
In una sottile e finissima filigrana di spinte e controspinte, Barnes illumina la tela di ragno che sempre più serra e soffoca l’eroe vigliacco, alle prese con colpe, rimorsi e anche il fantasma della tanta musica composta che pare attenui (non cancelli) colpe e rimorsi. Perché «l’arte è il mormorio della storia al di là del tempo». Quel tempo atroce cui la vita si è comunque adeguata, o ha finto di adeguarsi con mille raggiri e colpevoli dissimulazioni.