La Stampa, 4 settembre 2016
Una guerra tra Cina e Usa entro il 2025 è possibile
Il lancio di un avveniristico satellite anti-hacker dal deserto del Gobi e la costruzione avanzata di una base navale nel Corno d’Africa indicano la proiezione di Pechino verso una dimensione strategica globale, ben oltre i limiti dell’Estremo Oriente. A suggerire l’intenzione del presidente Xi Jinping di ritagliarsi più spazio in una comunità internazionale lacerata dalle crisi è quanto avvenuto nelle ultime settimane. Mentre i negoziatori del summit del G20 a Hangzhou definivano i dettagli di possibili compromessi su crescita e clima, dal centro di lancio di Jiuquan è stato messo in orbita a metà agosto il satellite «Mozi».
Il nome di un filosofo cinese dell’antichità, noto per le riflessioni sull’autocontrollo, si accompagna a un successo nell’alta tecnologia perché si tratta del primo satellite in assoluto capace di gestire comunicazioni quantistiche ovvero in grado di resistere ad ogni tipo di attacchi cibernetici. È una tecnologia già adoperata per proteggere comunicazioni terrestri negli Usa e in Europa, ma poiché l’efficacia diminuisce con la distanza finora nessuno ne aveva ipotizzato l’uso nel cosmo.
«Mozi» trasforma così la Cina nella prima nazione capace di garantire la sicurezza delle comunicazioni terra-cosmo con i conseguenti vantaggi militari e commerciali. Per avere un’idea più completa della genesi di questo sorpasso cinese a scapito degli occidentali basti aggiungere che nasce dal progetto dello scienziato austriaco Anton Zellinger che nel 2001 lo propose – con scarso successo – all’Agenzia spaziale europea e ora lo ha realizzato lavorando per il suo ex studente Pan Jianwei, divenuto nel frattempo una stella dell’Accademia delle Scienze a Pechino.
Se tutto ciò descrive i progressi cinesi nel cosmo, sulla Terra c’è da registrare l’inizio della costruzione a Gibuti della prima base militare cinese all’estero. Finora solo Stati Uniti, Russia, Francia e Gran Bretagna ne hanno avute, ma le foto scattate dai satelliti durante l’estate lasciano intendere che questo club ristretto di potenze si sta allargando. Era stato l’ammiraglio Sun Jianguo, vicecapo di stato maggiore delle forze armate, ad affermare in aprile che «il costante avanzamento della costruzione di basi all’estero è una priorità del presidente Xi Jinping». Se finora la Cina si era limitata a costruire porti marittimi lungo le rotte dei cargo che alimentano la propria crescita – da Myanmar allo Sri Lanka fino al Golfo e al Medio Oriente -, ora la base logistica di Gibuti ha caratteristiche militari tali da suscitare allarme al Pentagono, che nello stesso Paese africano ha circa 4000 uomini delle forze speciali nella base di «Camp Lemonnier». Sebbene Pechino parli solo di «struttura logistica», Washington ritiene che sia l’inizio di un network d’installazioni navali destinate a sorgere in tempi non lunghi anche in Oman, Pakistan e nelle Seychelles per proteggere interessi in crescita: dagli investimenti alle infrastrutture fino al possibile invio di contingenti.
È in tale cornice che il centro studi di «Rand Corporation» pubblica un rapporto sulla «possibile guerra fra Cina e Stati Uniti entro il 2025» che potrebbe svolgersi «con armi convenzionali e cibernetiche» su tre fronti: Estremo Oriente, cosmo e spazio digitale. Gli esperti di «Rand» ritengono che tale conflitto sarebbe molto nocivo per tutti e dunque resta una lontana ipotesi, ma ciò che conta è rendersi conto della presenza di tale, nuovo, rischio. La crescita cinese non è più limitata al mercato interno ed all’export, si accompagna a interessi globali evidenziati dal satellite «Mozi» e dalla base di Gibuti. È questa la nazione che ospita il G20 e con la quale l’Occidente ha interesse a convivere e collaborare. Per favorire la crescita e governare le crisi è necessario conoscersi meglio.