La Stampa, 4 settembre 2016
Le banche italiane e il G20
Quando stamani Renzi si siederà al tavolo del G20 in Cina, tutti gli altri leader attorno a lui sapranno che le banche italiane preoccupano l’intero pianeta. Così li ha informati il Fondo monetario internazionale nel documento preparatorio al vertice di oggi.
Siamo a questo punto per un intreccio di eventi che solo in piccola parte dipendono dall’attuale governo. Ma è bene che il nostro presidente del Consiglio non insista su questo aspetto, dato che spesso capita a chi guida un Paese di dover risolvere problemi preesistenti.
Gli stessi mali di cui soffrono le banche italiane non sono sconosciuti altrove. Nel nostro caso, oltre ad essere più gravi, vanno affrontati con la massima urgenza. Lo impone l’instabilità finanziaria non eliminata dall’economia mondiale, con la speculazione pronta a concentrarsi nei punti più vulnerabili. Però far presto sarà utile anche a tutti noi.
Il più recente tra i fattori di crisi sta, come notato negli ultimi giorni, nelle trasformazioni generate dall’informatica. Per gestire i depositi della clientela alle banche servono meno filiali e meno impiegati di prima. Basta dare un’occhiata, le rare volte che allo sportello ci capita di dover andare.
Anche negli altri Paesi questo accade; prima di tutti la Germania che ha nelle sue aziende di credito eccessi di personale analoghi. Solo l’Italia è pressata a intervenire subito a causa del groviglio di questioni irrisolte che si è formato.
Da mesi appunto vediamo quanto i conti delle nostre banche siano indeboliti dai prestiti che i loro debitori non sono in grado di ripagare («sofferenze» o «non performing loans»). Ne discutiamo per stabilire quanto si debba alla crisi economica e quanto a comportamenti errati dei nostri banchieri; sta di fatto che tutta la finanza mondiale lo sa e si comporta di conseguenza.
Per giunta i «Npl» italiani valgono meno degli altri a causa dell’inefficienza della nostra giustizia nell’assicurare il recupero dei crediti. E le nostre banche hanno strutture proprietarie deboli, con assetti i cui limiti erano evidenti da vent’anni e sui quali solo il governo Renzi – questo gli va riconosciuto – ha cominciato a intervenire.
Sono nodi difficili da tagliare. Per il governo intervenire costa molto denaro ed espone alla demagogia anti-banchieri. In più c’è l’ostacolo delle regole europee sugli aiuti: poco praticabili da noi a causa delle troppe obbligazioni subordinate appioppate dalle banche a piccoli risparmiatori mentre chi doveva vigilare, soprattutto la Consob, chiudeva un occhio.
Ad aggravare il tutto c’è una difficoltà dell’economia a riprendersi che, presente in tutti i Paesi avanzati, da noi è più grave anche a causa delle banche deboli che offrono poco credito. L’intrico degli errori nazionali rende esplosiva una miscela i cui ingredienti sono variamente diffusi (la contiguità-complicità tra politica locale e banche, ad esempio, è strettissima in Germania).
La capacità dei governi si misura su come affrontano gli imprevisti. Di fronte al mondo un riassetto complessivo della banche italiane passa avanti a molto altro come importanza. Difendersi dalle accuse populiste di «aiutare i banchieri» non è arduo, poiché sono confuse, lontanissime dai reali errori commessi. Ma occorre che per gli errori veri qualcuno paghi.
Serve un progetto organico che agevoli rafforzamenti del capitale, composizioni azionarie più robuste, riduzione del numero dei dipendenti; ben vengano anche organi dirigenti più snelli. Bisogna dare un futuro al Monte dei Paschi, senza far drammi se la più antica banca del mondo sarà controllata da non italiani. Solo con una azione decisa si otterranno vantaggi tali da compensare i costi politici e finanziari.