la Repubblica, 2 settembre 2016
È iniziata l’era dei petro-buffi
È iniziata l’era dei petro-buffi. E, come ai tempi d’oro dei petro-dollari, è in corso una gigantesca ressa fra banche e consulenti per riuscire a tuffare le mani nel flusso di quattrini che gira intorno al Golfo Persico, anche se, adesso, soldi, prestiti, investimenti, invece di uscire dalle casse dei re del petrolio a caccia di occasioni, ci devono arrivare per salvare gli eredi di Ibn Saud e i loro colleghi di Abu Dhabi o di Doha dalla crisi e dalla recessione. Emettendo obbligazioni, i paesi del Golfo hanno già rastrellato, nella prima metà di quest’anno, la cifra record di 18 miliardi di dollari sui mercati internazionali. Il più attivo è stato lo sceicco del Qatar, con una emissione da 9 miliardi di dollari a maggio: il titolo, quinquennale, offre un rendimento del 2,13 per cento. Ma il boom dei petrobond è ancora dietro l’angolo: secondo J.P.Morgan le emissioni arriveranno entro fine anno ad un totale di 35 miliardi di dollari. Lo scatto decisivo lo darà l’ingresso in campo, nelle prossime settimane, di chi da sempre, da Riad, distribuisce le carte del grande gioco del petrolio.
Del resto, tutto inizia da loro. È stata l’Arabia saudita, quasi due anni fa, a scatenare la guerra dei prezzi del petrolio e anche Riad ne ha pagato il prezzo: aveva il bilancio in attivo per l’equivalente del 20 per cento del Pil, zero debiti e oltre 700 miliardi di dollari in cassaforte. Quattro anni dopo, con il prezzo del greggio dimezzato, il surplus è diventato un deficit del 16 per cento, pari a 80 miliardi di dollari, il debito pubblico è salito al 10 per cento del Pil e le riserve sono crollate sotto i 600 miliardi di dollari. Per tamponare l’emorragia, la casa regnante ha annunciato radicali riforme, ma, nell’immediato, deve affrontare il problema di riempire le buste paga del 70 per cento della popolazione che dipende da un impiego pubblico. Ha cominciato quasi un anno fa, rastrellando oltre 5 miliardi di dollari in obbligazioni, rigidamente riservate, però, alle banche locali. Non poteva bastare. Ed ecco che, questa primavera, Riad si è risolta, per la prima volta in un quarto di secolo, a chiedere un prestito alle grandi banche internazionali. Il gigante seduto sulle più grandi riserve petrolifere al mondo non si è dovuto presentare con il cappello in mano. Non appena si è sparsa la voce, il futuro debitore è stato sommerso di generose offerte. I sauditi avevano pensato di chiedere fra 6 e 8 miliardi di dollari, ma sono saliti a 10, visto il boom di proposte. Ad aprire i propri forzieri a Riad sono state J.P.Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley, insieme ad alcune delle maggiori banche giapponesi e cinesi.
Ad un punto percentuale di interesse sopra il Libor, l’interbancario di Londra, il petro- prestito non era un grande affare, riconosce qualcuno fra gli stessi banchieri. Ma era il gettone per assicurarsi i futuri grandi affari. Puntualmente, infatti, ecco Riad bussare di nuovo a quattrini. Questa volta, nella forma più sofisticata di una emissione di obbligazioni. Ai primi di ottobre, i mercati si aspettano che vengano lanciati, per la prima volta, bond sauditi in dollari, per 10 o, più probabilmente, 15 miliardi. A conquistare le leve chiave nell’operazione sono stati J.P.Morgan (dagli anni ’30 praticamente la banca di famiglia della monarchia), Hsbc e Citi. Ancora una volta, però, l’affare vero è il prossimo. Si tratta di assicurarsi un posto di prima fila in quello che già qualcuno definisce l’affare del secolo: la quotazione in borsa dell’Aramco, la compagnia petrolifera che detiene i pozzi del reame e i 260 miliardi di barili delle riserve più ricche del mondo. Sul valore da attribuire all’Aramco girano cifre da capogiro: le valutazioni più moderate oscillano intorno a mille miliardi di dollari e, in Borsa, Riad non vorrebbe quotare più del 15 per cento. Anche così, però, a 150 miliardi di dollari si tratterebbe di una emissione bomba, un record assoluto, che fa sembrare un affaruccio di provincia la quotazione per 25 miliardi di dollari di Alibaba nel 2014, finora la più grande della storia.
Una quotazione record per 150 miliardi di dollari, significano commissioni record: un miliardo di dollari, calcolano a Wall Street, dove il gotha della finanza sta affilando le armi e moltiplicando l’impegno per metterci le mani sopra. A Dhahran, sulle sponde del Golfo, dove ha sede l’Aramco, i banchieri fanno la fila da mesi fuori dall’ufficio di Khalid al-Falih, il presidente, e di Amin Nasser, l’amministratore delegato, accettando, senza batter ciglio attese di ore e anche l’umiliazione di essere spesso dirottati a funzionari di rango inferiore, racconta chi ci è andato, pur di non essere tagliati fuori. Intanto, sui mercati asiatici si fa già la fila per prenotare i bond di ottobre. In un momento di tassi all’osso o negativi, rendimenti in linea con quelli del Qatar (circa il 2 per cento) ingolosiscono molti.