Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  settembre 02 Venerdì calendario

Il populismo è in crisi in tutta l’America Latina

Con l’accordo di pace firmato all’Avana con le Farc, che il 2 ottobre verrà sottoposto a un referendum, il presidente colombiano Juan Manuel Santos è riuscito a raggiungere (grazie anche alla mediazione dei rappresentanti di Norvegia, Cile, Cuba e Venezuela) un obiettivo che sembrava irrealizzabile. Dal 1964, da quando s’era arenato il progetto di una riforma agraria del liberal-progressista Alberto Lleras Camargo, per l’opposizione dei conservatori, le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia, legate all’estrema sinistra comunista e capitanate da Manuel Marulanda (un leader divenuto leggendario col nome di battaglia di “Tirofijo”), avevano imbracciato il fucile a sostegno della causa dei contadini senza terra e ridotti in estrema miseria. 
Da allora, insieme a un altro gruppo di matrice castrista, avevano dato vita a un vasto movimento di guerriglia istituendo nell’area a ridosso dei confini con il Perù e l’Ecuador una “repubblica indipendente” e assicurandosi, con i proventi derivanti dalle piantagioni di coca e dal narcotraffico, il denaro e le armi per reclutare un crescente numero di proseliti. Erano così falliti i tentativi delle truppe governative di spegnere i focolai della rivolta, nonostante il ricorso anche a brutali misure repressive nei confronti della popolazione locale sospettata di parteggiare per i guerriglieri. Né avevano sortito alcun risultato concreto le promesse, enunciate di tanto in tanto dai palazzi di Bogotà, di una distribuzione ai “campesinos” di alcuni appezzamenti dei latifondi. Anche certe tregue d’armi non avevano posto le premesse per un armistizio: così era avvenuto pure per quella patrocinata nell’ottobre 1984 dallo scrittore Gabriel Garcia Marquez, amico di Fidel Castro. D’altronde il governo aveva finito per lasciare mano libera a bande di “sicarios” di estrema destra, famigerate per le loro razzie e i sevizi e le uccisioni di braccianti, operai e sindacalisti: senza tuttavia sbaragliare i movimenti insurrezionali giunti anzi a controllare di fatto un terzo del Paese. 
Si comprende pertanto l’importanza storica dell’intesa siglata negli ultimi giorni, dopo quattro lunghi anni di negoziati (assecondati dall’Onu, dagli Usa e dalla Ue), conclusisi con un patto che contempla sia un’amnistia generale per i reati (salvo gli omicidi di massa e i delitti di lesa umanità) commessi tanto dai guerriglieri che da paramilitari e dai membri dell’esercito regolare, sia il riconoscimento delle Farc come movimento politico (a cui verrà destinato il 5% del finanziamento pubblico ai partiti e garantita una decina di seggi fra Camera e Senato per le due prossime legislature, indipendentemente dall’esito delle elezioni), nonché il reinserimento nella società dei loro ex combattenti (che riceveranno per due anni un salario minimo). 
La fine della guerra intestina in Colombia, che ha provocato durante oltre mezzo secolo 260mila morti (l’80% dei quali civili) e uno strascico di gravi sofferenze e tribolazioni, ha assunto una portata tanto più rilevante alla luce del declino in corso dell’egemonia politica, esercitata per tanto tempo dalla sinistra radicale nel mezzo di aspre tensioni sociali, in vari Paesi dell’area andina (dal Perù alla Bolivia, all’Ecuador). E ciò in seguito al successo a Lima, alle presidenziali di maggio, di un esponente di centro (come Pedro Pablo Kuczynski); alla sconfitta in Bolivia di Evo Morales nel referendum da lui indetto per modificare la Costituzione al fine di potersi ripresentare nel 2018 per un quarto mandato consecutivo; e alle crescenti difficoltà economiche del governo di Quito che hanno indotto Rafael Correa a varare una legge sul partenariato pubblico/privato per attirare dall’estero investimenti nei settori strategici. Inoltre, dopo le elezioni parlamentari del dicembre 2015, in cui il fronte delle opposizioni ha conseguito la maggioranza assoluta, in Venezuela sembra ormai agli sgoccioli il regime chavista del presidente Nicolas Maduro. 
Mentre in Argentina, dopo 12 anni di governo dei peronisti di sinistra Nestor e Cristina Kirchner, le ultime presidenziali sono state vinte dall’esponente liberista di centro-destra Mauricio Macrì, in Brasile l’erede politica di Lula, Dilma Rousseff, è stata destituita dalla presidenza in seguito al processo di impeachment a suo carico, in quanto accusata di aver truccato i conti pubblici per farsi rieleggere nel 2014. Tuttavia è troppo presto per sentenziare l’epilogo del populismo in America Latina e il sopravvento sulla sinistra di un’ondata politica di destra. 
Molte cose verranno a dipendere in pratica, per un’effettiva stabilizzazione democratica e il futuro del Cono Sud, sia dall’esito della lotta contro certi mali endemici come la corruzione annidata nei gangli della pubblica amministrazione e il connubio fra clientelismo e autoritarismo, sia dal superamento della pesante crisi economica determinata dalla caduta dei prezzi del petrolio e di altre materie prime, che comporta, insieme a efficaci riforme strutturali, misure politiche impopolari come la riduzione delle spese sociali.