Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2016
La lobby delle armi, vero baluardo per Trump
Il maxi-schermo dell’Arena di Cleveland ci ha messo un po’ a trovare l’identità dell’oratore sul palco. Chris Cox, ex presidente della Sec, esclama poi trionfante il sottopancia mentre lui comincia a parlare. Possibile? Cosa ci farà l’ex capo dell’autorità mobiliare all’incoronazione di Trump? Nulla, appunto. Il Cox salito sul palco è ben altro: è lo stratega della National Rifle Association, la lobby delle armi. Quando il sottopancia se ne accorge è ormai chiaro: chiede la nomina di giudici della Corte Suprema che garantiscano il diritto assoluto dei cittadini all’uso di pistole e fucili per difendere quel clima di legge e ordine che, per il candidato repubblicano, è un pilastro del suo più ambizioso progetto immobiliare: la Casa Bianca.
Il passaggio quasi inosservato di Cox alla Convention di luglio è stato significativo e rivelatore: la Nra, capitanata da Wayne LaPierre («solo un uomo giusto con la pistola può fermarne uno cattivo»), spesso lontana dai riflettori è rimasta l’ultimo grande bastione di Trump. Se recupererà nei sondaggi e vincerà, lo dovrà in parte al suo “esercito” di militanti di base e alla sua influenza politica. Trump ricambia: parlando d’immigrazione ha invocato la difesa del Secondo Emendamento della Costituzione, quello sul diritto ad armarsi. E aveva destato scalpore la sua mobilitazione del “popolo del Second Amendment” per fermare Hillary Clinton. A superare ogni incomprensione (Trump era un tempo per controlli sulle armi) ci hanno pensato i figli del magnate, Donald Jr. e Eric, entrambi iscritti alla Nra e consci del suo ruolo.
Ma se è chiaro cosa Trump si aspetti dal patto, ancor più importante è la posta in gioco per la Nra. L’associazione è infatti al corrente di una verità: che il diritto al porto d’armi non è affatto scolpito in modo inequivocabile in un paragrafo della Costituzione. È piuttosto scritto nelle sentenze del massimo organismo giudiziario e costituzionale statunitense. In sentenze, assai recenti, al centro di feroci campagne politiche e che possono cambiare con la composizione della Corte Suprema: padre riconosciuto della versione in vigore del Secondo Emendamento è stato il magistrato italo-americano e ultra-conservatore Antonin Scalia, di recente scomparso. Fu lui nel 2008 a ricevere l’incarico dalla maggioranza della Corte di mettere nero su bianco la vittoria della lobby pro-armi in un caso passato alla storia come Distretto di Columbia contro Heller. Scalia archiviò due secoli di giurisprudenza più moderata per spiegare come le scarne e ambigue righe del Secondo Emendamento conferissero un diritto costituzionale individuale al possesso di armi, ipotesi ancora qualche decennio prima tacciata da un altro presidente conservatore della Corte, Warren Burger, come «truffa pretestuosa».
Una snella “biografia” dell’emendamento pubblicata dal giurista Michael Waldman aiuta a chiarire la saga. Il testo originale recita: «Una ben regolamentata milizia, necessaria alla sicurezza di un libero Stato, il diritto del popolo di tenere e portare armi, non sarà violato». Significa che tutti gli americani «hanno il diritto alle armi…per poter esplicare il dovere di cittadini-soldati nelle milizie». Un concetto tanto attuale allora, nel clima della rivoluzione americana, quanto adesso anacronistico se non sotto forma della guardia nazionale. Tant’è che quel testo oggi combattuto venne alle origini preparato e approvato senza gran dibattiti né note. Piuttosto come una concessione marginale dei padri fondatori a regioni rurali del Paese preoccupate dalla centralizzazione del potere federale.
Ma il mito di un’indiscussa e libera cultura delle armi è solo un aspetto dell’identità americana. Nel Far West con le armi brulicavano i controlli: è un classico la foto di Dodge City con l’insegna che vietava pistole e fucili in città. E durante proibizionismo e Grande Depressione leggi restrittive furono cruciali contro il crimine organizzato. La svolta politica contemporanea sulla supremazia delle armi in mano prende le mosse, in realtà, solo negli anni 70. È allora che la Nra si trasforma da associazione di cacciatori e sportivi in influente gruppo di lobby di aziende e militanti sotto la leadership di legali conservatori determinati a iscriverla nella Costituzione come indispensabile a libertà e autodifesa. Una trasformazione che coincide con altri fenomeni: le scosse culturali, il movimento dei diritti civili, la fuga dai centri urbani dei ceti medi bianchi, il degrado urbano e lo spettro del crimine. Il fascino delle armi – sublimato dai vigilantes di Hollywood – si fa facile riposta a un’era di vulnerabilità.
Industria e lobbisti, accusano i critici, fanno tesoro della paura: è un settore da oltre 8 miliardi di dollari l’anno e 32 miliardi di impatto economico capitanato da marchi quali Smith & Wesson, che a oggi ha messo in mano a civili americani 310 milioni di armi, più d’una per cittadino se si escludono i neonati, un record mondiale buono per una media di 85 vittime al giorno. Per paura le vendite si sono impennate dopo l’elezione del primo presidente afroamericano, Barack Obama. E la paura ora non la lesina Trump, che dipinge gli Stati Uniti a tinte fosche, in balia di violenza, clandestini e criminali contro i quali puntare – metaforicamente o meno – il grilletto.