Corriere della Sera, 2 settembre 2016
Ci vorranno anni per ricostruire. Facciamocene una ragione
Niente illusioni: avvelenano. Assieme al pasto caldo, alle tende, alle coperte per la notte, gli sfollati di Amatrice e dei borghi vicini hanno diritto alla verità. La quale, spiegò Albert Camus, «non è mai caritatevole». Anzi, può essere crudele: la storia dice che, salvo svolte radicali, ci vorranno anni, per ricostruire. Anni. Perfino il Friuli, preso a modello di ogni resurrezione, ce ne mise otto prima che le contrade distrutte sembrassero «quasi» quelle di prima. Dieci per finire i lavori. Di più ancora le chiese.
«È doloroso, ma va detto subito», sospira Giuseppe Zamberletti, commissario sul doppio terremoto del 1976, pioniere della protezione civile e anima di quel miracolo: «I tempi sono quelli. È importantissimo che le persone colpite dal sisma non siano illuse. Devono sapere la verità per potere fare poi le loro scelte. Se racconti loro che resteranno nelle abitazioni provvisorie, magari dignitose ma provvisorie, solo un paio d’anni la scoperta poi della verità sarà un dolore straziante. Insopportabile. E rischierà di scatenare le proteste di chi si sentirà tradito».
Ci provò Silvio Berlusconi, per vanità taumaturgica o perché convinto che la realtà dei fatti andasse data a cucchiaini come una medicina amara, a «tener su il morale» degli aquilani. Basti rileggere un Ansa del 18 aprile 2009, quando sulla base di «4659 sopralluoghi» annunciò «una bella sorpresa»: «Il 57% delle case è immediatamente agibile. Un altro 19% delle abitazioni possono invece essere rese agibili con un intervento veloce, da uno a trenta giorni». Testuale.
Ai primi di luglio cominciò a correggere il tiro: «Entro metà novembre i terremotati abruzzesi lasceranno la loro tende per abitare vere e proprie case. Purtroppo saranno molto più lunghi i tempi della ricostruzione del centro dell’Aquila. Si parla di 3-5 anni». A settembre li prolungò ancora: «Per il centro storico dell’Aquila i tempi necessari saranno dai 5 ai 7 anni, ma tutto tornerà come prima». Poche settimane e, chiedendo la rimozione delle macerie, scendeva in piazza furente il popolo delle carriole.
Sono passati, quei sette anni. E risuonano come una beffa le parole dell’allora premier a Le Figaro : «A tempo di record abbiamo soccorso 65.000 vittime e ricostruito un’intera città per coloro che avevano perso le loro case. Abbiamo anche ricostruito tutte le scuole distrutte… Nessun altro governo al mondo…». «Valeva la pena di «addomesticare» la verità? Mah… Chissà se lo stesso Cavaliere la pensa ancora così…».
La ricostruzione dell’Aquila, del suo centro storico, del suo patrimonio architettonico e monumentale, è ancora lontana dal completamento. E se il diluvio di leggi e leggine ha contribuito a impantanare i cantieri, va anche detto che riportare alla vita il cuore medievale o rinascimentale di un borgo italiano è ben diverso dal riparare altre strutture. Ci misero un mese, gli americani, a ripristinare un’arcata del San Francisco-Oakland Bay Bridge crollata per il terremoto del 1989. E il sindaco si scusò per il ritardo di un giorno sulla riapertura prevista.
Ma da noi? Il nostro paesaggio, spiegava Benedetto Croce nel 1922, «è la rappresentazione materiale e visibile della patria, coi suoi caratteri fisici particolari, pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli». Ci vollero secoli per fare Norcia, Nocera Umbra, L’Aquila, Amatrice, Arcuata… Non bastano mesi dopo un trauma apocalittico a riportarle allo splendore antico. Lo dice la storia. Quasi dieci anni per ricostruire «com’era e dov’era» il campanile di San Marco a Venezia schiantatosi per errori umani nel 1902. Nove per ricostruire l’Archiginnasio di Bologna, bombardato nel ‘44. Quattordici per ricostruire il ponte di Santa Trinita a Firenze fatto saltare con l’esplosivo dai nazisti in fuga. Per non dire dei tesori irrimediabilmente perduti, come la Palazzata di Messina, demolita dopo il sisma del 1908 nonostante le facciate fossero rimaste miracolosamente in piedi.
Oltre sette anni dopo, qual è la situazione di Onna, il paese simbolo del terremoto aquilano? Nel centro storico, dove crollò l’80% degli edifici, c’erano 94 case abitate: i primi cantieri per la ricostruzione (e meno male che gli sfollati han potuto contare sulle decorose casette prefabbricate offerte dal Trentino Alto Adige) sono partiti a settembre 2015. I primi cantieri privati oggi già attivi, per rimettere in piedi alcuni isolati, sono sei. Più altri due finanziati ma fermi per problemi nati fra l’«aggregato» e impresa. E nessun onnese che aveva la casa nel centro storico, racconta Giustino Parisse, il giornalista che quella notte perse il padre di due figli, «è rientrato nella sua abitazione».
«Ricordo bene quali furono i tempi», racconta l’allora sindaco di Gemona Ivano Benvenuti, «Dopo le scosse di maggio e di settembre 1976 finimmo sfollati sulla costa. Nella primavera del ‘77, mentre il Parlamento e la regione facevano le leggi quadro, rientrammo nei prefabbricati. Nella primavera del ‘78, cominciammo finalmente i lavori di ricostruzione». Due anni solo per partire: «Capisco, perché la vivemmo sulla nostra pelle, l’ansia degli sfollati. Vorresti fare tutto subito, quando ti ritrovi in una tenda. Subito. Quella volta imparammo però che non bisogna avere fretta. Guai, ad essere precipitosi. Si rischia di sbagliare. E non si può sbagliare. Ci abbiamo messo otto anni, per tirare su quasi tutte le nostre case. Dieci per finire davvero i lavori». Prima le fabbriche, poi le case, poi le chiese. Il Duomo di Venzone, bellissimo, è oggi il simbolo del miracolo: ci misero diciannove anni però, i friulani teste dure, a recuperare pietra su pietra e ricostruirlo.
Certo, con le esperienze del passato e le tecnologie più avveniristiche, non solo è possibile ma obbligatorio ridurre oggi drasticamente i tempi di questo calvario. Obbligatorio. Vale però la pena, proprio per quella doverosa operazione di realismo, rileggere cosa scriveva nel libro «Il modello Friuli» (a quattro mani con Rodolfo Cozzi) l’architetto Luciano Di Sopra che di quel modello fu l’artefice: «L’avvio della ricostruzione è più lento rispetto a quello della ristrutturazione antisismica degli edifici preesistenti». Per questo «le zone meno danneggiate e interessate prevalentemente da interventi leggeri, di solo riatto, concludono le attività in un arco dell’ordine del triennio. Le zone dove più elevata è l’entità delle ricostruzioni, debbono invece sottostare a tempi più lunghi, che possono raggiungere i dieci anni». E questa lunga ricostruzione «ha un andamento dinamico che completa la reintegrazione dei tessuti urbani procedendo dalla periferia verso le zone dell’epicentro, in modo analogo a come si rimargina una ferita».