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 2016  settembre 01 Giovedì calendario

Il modello Emilia ha funzionato?

Sì.
I numeri, quattro anni dopo, dicono che gli sfollati del sisma emiliano rientrati nelle loro case ricostruite sono 19.739 su 28.114. Gli altri ricevono un contributo per l’affitto; 292 famiglie ancora vivono nei prefabbricati. E l’economia, nonostante le ferite, è ripartita: su 1,2 miliardi di euro concessi alle imprese, ne è stata liquidata circa la metà. Sono alcuni dei motivi che portano a ritenere vincente il modello della ricostruzione emiliana. Le ombre in realtà non sono mai mancate: da alcuni centri storici (come Finale Emilia) ancora deserti alle infiltrazioni negli appalti di imprese legate alla criminalità organizzata.
Ma di sicuro, la gestione post-sisma disegnata da Vasco Errani, nel 2012 governatore al terzo mandato e commissario per la ricostruzione, si è subito caratterizzata per un’identità precisa sintetizzata in questa formula: «Ricostruire senza creare sistemi paralleli». Quando pronunciò queste parole dopo il terremoto che aveva causato 27 vittime, 350 feriti e danni per 13 miliardi di euro, Errani intendeva chiarire che non ci sarebbero state new town, nell’Emilia dilaniata dalle scosse. Niente cittadelle «parallele» come all’Aquila. Le città sarebbero state riedificate nelle loro sedi storiche, come chiedevano gli abitanti.
E da questa traccia Errani e il suo successore Stefano Bonaccini non hanno mai derogato.
Ma il «modello Emilia» che Errani, da commissario per la ricostruzione, cercherà di replicare in Lazio, Marche e Umbria, si fonda, innanzitutto, su una copertura economica che ha consentito di non dovere negoziare i finanziamenti un pezzo per volta. Per questo, alla fine del 2012 Errani aveva firmato un accordo con la Cassa depositi e prestiti capace di garantire attraverso le banche sei miliardi di euro a cittadini e imprese. E poi, il metodo: cittadini (e negozianti) da un lato, le imprese dall’altro.
Errani ha subito siglato un patto di ferro con i sindaci. Gli sfollati e i negozianti danneggiati sono stati indirizzati ai Comuni per certificare i danni e ottenere i rimborsi. Le imprese e i responsabili delle opere pubbliche (chiese comprese) sono stati assegnati alla Regione.
Non solo. Le scosse avevano assestato un colpo tremendo a uno dei tessuti produttivi più fertili d’Europa. I contributi della Regione sono serviti a delocalizzare (momentaneamente) le imprese danneggiate trasferendo al sicuro i macchinari e ripristinando le scorte. E di sicuro, ha funzionato l’iter sulle scuole. Manuela Mantenti, responsabile degli edifici emergenziali, spiega che nessuno studente ha perso un’ora di lezione e «i prefabbricati scolastici sono stati installati solo per nove mesi in attesa del ripristino».
***
No.
Chiese e monumenti transennati, negozi vuoti, edifici pubblici e privati disabitati, impalcature ovunque. È l’altra faccia di una ricostruzione che ha funzionato, ma non senza ombre. A quattro anni dal terremoto che colpì l’Emilia, i centri storici di una ventina di comuni del cratere, i più danneggiati dei 60 interessati dal sisma, attendono una ricostruzione che stenta a decollare. Cavezzo, Mirandola, San Felice sul Panaro, Concordia e Finale Emilia portano ancora evidenti i segni del terremoto. Molto è stato fatto, specie per le abitazioni private, ma non tutto è andato per il verso giusto. A partire dalla ricostruzione dei beni culturali e storici, andata a rilento.
Il modello Emilia presenta un bilancio in chiaroscuro che in alcuni casi è stato appesantito da lungaggini burocratiche e da procedure che nonostante le migliori intenzioni si sono rivelate a volte macchinose. I soldi c’erano e ci sono ma chi è ancora in attesa racconta di trafile estenuanti. Dei circa tre miliardi di euro stanziati per ricostruire abitazioni e imprese, finora ne sono stati liquidati solo 1,7 miliardi. Va detto che l’allora presidente della Regione Vasco Errani si trovò a costruire di sana pianta un nuovo impianto normativo e giocoforza non tutto è filato liscio. La scelta di coinvolgere direttamente i Comuni nel controllo e nella concessione dei contributi è andata senz’altro incontro alle esigenze dei cittadini ma a volte ha comportato l’allungamento delle procedure e problemi di organizzazione delle singole amministrazioni, non tutte all’altezza del compito.
I tempi lunghi sono stati giustificati con la necessità di controlli serrati e verifiche puntuali per scongiurare sprechi o peggio. Il sistema delle white list per le imprese coinvolte nella ricostruzione ha sostanzialmente funzionato ma non sono mancate eccezioni, inchieste e scandali: dai subappalti alle ditte legate alla ‘ndrangheta a scuole costruite con cemento depotenziato come a Finale Emilia. L’inchiesta della Dda di Bologna sulle infiltrazioni in regione ha fatto emergere gli appetiti delle mafie per il business del post sisma e la presunta connivenza con amministratori pubblici e imprese emiliane.
Poi c’è il tema delle imprese, una particolarità del terremoto in Emilia. Mai era capitato prima in Italia che sisma colpisse un’area così altamente industrializzata. Le grandi aziende, specialmente quelle del biomedicale, sono ripartire subito grazie alle assicurazioni, le medio-piccole, le imprese artigiane hanno spesso annaspato. Le pratiche per i risarcimenti sono andate a rilento costringendo gli imprenditori, già fiaccati dalla crisi economica, a delocalizzare o ad anticipare di tasca propria. Non tutti sono ripartiti.