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 2016  agosto 30 Martedì calendario

L’ultima difesa di Dilma

Se avesse potuto, per un’ultima volta, usare un puntatore e proiettare una foto, avrebbe scelto quella del 1970, sulla quale in questi anni ha tentato inutilmente di costruire un mito, e quel posto nella Storia che forse non avrà. Dilma Rousseff ventenne davanti a un tribunale della dittatura militare, lei con sguardo di sfida, i suoi accusatori con il volto nascosto da una mano. «Oggi mi presento qui come quel giorno, e guardo dritto negli occhi chi mi accusa ingiustamente. Come in passato resisto contro chi attenta allo stato di diritto. Contro chi ha messo in piedi in Brasile un altro colpo di Stato, senza armi e carrarmati, un golpe parlamentare. Voi risponderete alla vostra coscienza, per questa morte politica della democrazia che state mettendo in piedi!». È l’ultima, estrema e probabilmente inutile difesa davanti al plotone dell’impeachment, il Senato federale di Brasilia. Entro oggi e domani l’aula voterà a chiamata nominale per l’addio definitivo della Rousseff dalla presidenza, dalla quale è già stata allontanata a giugno. Le previsioni non sono a suo favore. Per questa la tecnocrate accusata di vivere a «slides» e «powerpoint», e non capire nulla di politica, ha dovuto tirare fuori tutta l’emotività nella messa in scena dell’atto estremo. Sacrificio personale e requiem di un pezzo di storia del Brasile che si chiude in queste ore. Dilma coraggiosa, testarda e irriducibile: in politica spesso sono difetti, lei li paga tutti, ma oggi fanno teatro.
Dalla galleria del Senato, che sembra un auditorium, Lula guarda in basso e si tortura i baffi: nella sua epopea politica mai ha fatto errore più grande che scegliere Dilma a sostituirlo. È spaesato dietro gli occhiali scuri il più famoso supporter dei 13 anni del Partito dei lavoratori, il cantautore e scrittore Chico Buarque de Hollanda, seduto a fianco di Lula. I fotografi bombardano di flash, tutti filmano le ore finali con il cellulare. Ex ministri e compagni di strada. Tutti a casa, a quanto pare. Il presidente (ex) operaio, la generazione che ha lottato contro i militari, la sinistra intellettuale e i preti della Teologia della liberazione, gli economisti dello sviluppo senza rigore, i fan dell’unica sinistra latino-americana che funzionava: «non come Chávez e i Kirchner» osannava anche Wall Street. Al loro posto tornano i «soliti noti», quelli che nella narrativa degli sconfitti di oggi sono gli stessi da cinque secoli. I bianchi, gli oligarchi, i padroni della terra, i signori dei media. Quelli che non volevano i sussidi ai poveri, le case popolari, le fogne nelle favelas, i diritti delle «empregadas» (le colf semischiave).
È un mosaico di tesi discutibili e la maggioranza dell’opinione pubblica non le condivide, ma a Dilma non resta alternativa per uscire di scena a testa alta. Ha davanti 80 senatori che in buona parte hanno cambiato bandiera negli ultimi mesi, e molti sono inquisiti. Lei ha mezzo partito dietro le sbarre o sotto processo nella «Lava Jato», la Mani pulite brasiliana, Lula compreso. Ma i partiti del ribaltone non stanno meglio.
Usa parole come codardia, tradimento, slealtà. Descrive così il governo Temer che l’ha sfrattata: «Un esecutivo di usurpatori, non c’è una donna, un nero. Proprio nella legislatura dove i brasiliani per la prima volta nella storia avevano scelto una presidenta». Tenta timidamente di chiedere nuove elezioni (che la Costituzione tra l’altro non prevede) e qui e là entra nel merito delle accuse che tra poche ore la spediranno a casa, cioè il maquillage del bilancio pubblico per far quadrare i conti. Dilma ne ha azzeccate poche nei sei anni di governo, le sue scelte economiche (illecite o meno), hanno portato il Brasile a due anni di dura recessione. Svaniti tutti i sogni degli anni di Lula, l’ingresso nelle grandi potenze, il bioetanolo per far andare le auto pulite, il petrolio in alto mare, la salvezza dell’Amazzonia a braccetto con l’agricoltura più efficiente del mondo. E soprattutto: i trenta milioni di poveri che diventano classe media, i Mondiali di calcio e le Olimpiadi...
Ed è proprio quando cita i Giochi di Rio appena conclusi che Dilma ha l’unico groppo in gola e le lacrime agli occhi: «In gioco oggi c’è l’autostima di tutto il popolo brasiliano, dopo i successi dei grandi eventi che abbiamo ospitato...». Poi regge per ore rispondendo a decine di domande, senza stancarsi. Le previsioni per il voto finale dicono che i 54 senatori su 80 necessari per l’impeachment già ci sono. Fuori dal Senato, gli epici movimenti popolari che avrebbero dovuto fermare il golpe sono ridotti ad un centinaio di irriducibili sotto il sole. Dilma non li va nemmeno a salutare, sennò la Tv sarebbe costretta a riprendere quell’enorme vuoto voluto dai padri modernisti di Brasilia davanti ai palazzi del potere. Vuoto, appunto.