Corriere della Sera, 27 agosto 2016
«Volevo solo andare in bicicletta». Quattro chiacchiere con Alex Zanardi, icona delle Paralimpiadi di Rio
Se qualcuno ha dubbi che le Paralimpiadi in programma a Rio de Janeiro dal 7 settembre, non siano sport «vero», basta guardi la foto di Alex Zanardi dopo che ha vinto il suo primo oro nell’edizione 2012. L’ha appena usata il Comitato Paralimpico Internazionale sulla sua pagina Facebook per rilanciare i Giochi 2016, facendo del 49enne italiano il proprio testimonial planetario, e definendola «una delle immagini più iconiche» della competizione. C’è in quel gesto – l’atleta a terra sulle gambe che non ci sono, le braccia forti in aria a sollevare la bici come fosse una piuma, lo sguardo di assoluto trionfo – la confutazione del pregiudizio primo sulla disabilità: che sia sinonimo di debolezza.
«Non ho posato per quello scatto, è stato un caso, ma ne sono molto orgoglioso: è davvero potente», dice Zanardi al telefono dall’Abruzzo dove è in ritiro con gli altri atleti della Nazionale di paraciclismo prima di partire per il Brasile («Siamo a 40 chilometri in linea d’aria da Amatrice e un pensiero va alle popolazioni colpite dal terremoto»).
Alex quell’immagine l’ha vista per la prima volta il giorno dopo: «Ero in un centro commerciale a Londra e una signora mi ha chiesto l’autografo per i nipoti – racconta —. Mi sono stupito: in Italia succedeva, ma perché sapevano chi ero in Inghilterra? Poi mi sono girato e ho guardato l’edicola dietro di me: era tappezzata di non so più quale giornale con la mia foto in prima pagina. Sono rimasto a bocca aperta. Quasi non mi riconoscevo: per quanto sia fiero del mio oro, so che in quell’immagine c’è molto di più».
Molto di più. Capita anche quando si allena, come nelle scorse settimane all’Isola d’Elba – lui passa con la sua handbike e la gente lo applaude. «Mi scalda il cuore che non mi sentano solo come uno sportivo, perché gli sportivi, anche quelli grandi, da Maradona, ad Alberto Tomba a Valentino Rossi, comunque un po’ dividono. Invece la gente vuole vedere in me qualcosa di diverso. E non me ne lamento, eh. Anzi: me ne compiaccio».
D’altronde se hai puntato la tua vita sulle corse in auto e poi un incidente in pista ti porta via le gambe (a Lausitz in Germania, nel 2001, formula Cart) e tu invece di pensare che sei finito torni a gareggiare e vinci, e poi non ti basta neanche quello e decidi di reinventarti in un’altra specialità, il paraciclismo, e vinci lo stesso, può succedere che la gente ti consideri un simbolo.
Zanardi lo porta con leggerezza, come la sua bici: «Alla fine lo sport, tutto lo sport, è questo. Guardare qualcuno che ottiene un grande risultato significa entrare nel percorso che l’ha portato ogni giorno a mettersi in gioco e fare il meglio che poteva – spiega —. Ti fa dire: lo posso fare anch’io. Ancora di più se sei di fronte a uno che è partito senza gambe, braccia, vista o con un handicap mentale. Ti fa capire che quello che conta è il desiderio: se hai davvero deciso dove andare, l’ultimo tuo problema è diventare campione. Ti basta fare quella cosa lì. E magari diventi anche campione, l’entusiasmo è una spinta forte».
Lui è l’unico talento che si riconosce davvero: «Ho la capacità di sapere dove voglio andare. Quando ho lasciato l’automobilismo per fare le gare contro i disabili tutti hanno pensato che fossi pazzo. Poi c’è stata Londra». Quello che voleva era, molto semplicemente, «andare in bicicletta e farlo bene. Per riuscire a spingersi sempre un po’ più in là in allenamento, per quella gocciolina di sudore che ti solca la fronte, per le implicazioni tecniche che fanno la quadra con la mia passione da bricoleur».
E alla fine la cosa di cui parla con più orgoglio sono «le ore passate nel mio capanno degli attrezzi a guardare il mezzo e a pensare come migliorarlo: ho davvero innovato». Sarà la prima soddisfazione adesso che si troverà, alla soglia dei 50, a gareggiare con dei ventenni: «A Londra avevamo bici diverse. Ora le handbike dei miei avversari assomigliano tutte alla mia».