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 2016  agosto 28 Domenica calendario

Dalle vite al limite degli obesi ai malati di risparmio. Ecco le storie, non sempre a lieto fine, che racconta Real Time

«Com’è carino» dice la piccola Rose, sette anni, di fronte al coniglietto sulla strada. «Anche molto fresco», osserva il padre. Poi accorrono gli altri, i fratellini di Rose, e lei: Vicky Madison, quarantadue anni, la madre. Vicky risparmia su tutto: casa, vestiti, cibo. Intendiamoci però: lei ai suoi bambini non fa mancare niente, i bambini devono mangiare carne. Ecco allora i Madison girare per le strade del Connecticut alla ricerca di animali, perché loro mangiano sì carne, ma di animali investiti. Con il coniglio di oggi faranno una cena coi vicini di casa, una specie di piccola festa, che bello mamma! Non solo: con le zampe del coniglio Vicky crea quattro portachiavi, e dalla pelle ricava una borsetta con frange. «È stupenda», esulta la piccola Rose mettendosi la borsetta a tracolla, e volteggiando nel salone vuoto, qui si risparmia anche sull’arredamento. È stupenda, continua la bambina roteando su se stessa.
Domenica 3 luglio, ore 9.30, Malati di risparmio (stagione 3, Real Time).
Ora: che cosa c’è di tanto innovativo in questo programma di Real Time? Nella nuova stagione che sta per partire, accanto a programmi più tradizionali ( Bake off Italia, Ma come ti vesti?!, Alta infedeltà ), Discovery Italia ripropone: Vite al limite, Skin Tight: la mia nuova pelle, Vita da giganti, molti dei quali in prima serata, considerati gli ascolti altissimi della passata stagione.
E dunque: in che consiste la novità proposta da Real Time (Discovery Italia) che sotto la guida di Laura Carafoli in pochi anni è diventato l’ottavo canale nazionale? Una rivoluzione dei canoni televisivi. Ecco cosa succede lontano da Rai e Mediaset, lontanissimo dalla televisione anche quella considerata più all’avanguardia, Real Time ridefinisce i confini, reinventa il racconto televisivo.
Prendiamo Vite al limite. In ogni puntata viene raccontata la storia di un super obeso: lo stile di vita, l’ambiente familiare, il rapporto ricattatorio che lega obesi immobilizzati a letto a familiari che portano loro il cibo («So di fare il suo male, ma come faccio a dirle di no?», «In molti mi hanno detto di non dargli da mangiare, ma io sono una mamma, e quando senti tuo figlio dire: ho fame...», «Quando mi rifiuto, mia madre si mette a piangere come una bambina, e io mi sento, mi sento...» dicono mariti, madri, figli atterriti). A un certo punto la decisione: sottoporsi all’operazione di bypass gastrico. L’unica soluzione, l’ultima speranza. Attraverso viaggi lunghissimi, venti-trenta ore, distesi su materassi nel retro di pulmini, gli obesi arrivano a Houston dal dottor Nowzaradan, medico chirurgo. La salvezza. Invece no, non lo è, o almeno non così come l’avevano pensata loro.
In questo mondo/programma non c’è soluzione facile, salvezza immediata. Il dottor Nowzaradan vuole prima testare la volontà del paziente a cui chiede di perdere 30/40 chili in due mesi con la sola dieta, «voglio vedere se davvero lei è intenzionato a cambiare stile di vita» dice il dottore distruggendo all’istante il sogno di rinascita dell’obeso. Se il paziente riesce a perdere quei chili, sarà operato, in caso contrario, no. Molti falliscono, piangono, ci riprovano, perdono tre chili invece dei trenta previsti, si disperano, resistono, si arrendono, «a volte mi chiedo perché sono venuta al mondo, per essere torturata, suppongo» si sfoga Charity, 290 chili. Molte di queste storie non finiscono bene, a differenza di Extreme Makeover: Diet Edition.
Qui a fine puntata nessuno sale su un palco dimagrito, trasformato, con l’applauso di parenti e amici che commossi mormorano: è un’altra persona, non sembra più lui/lei. Qui spesso la puntata si conclude proprio con l’operazione di bypass gastrico, i protagonisti ancora enormi, magari su una panchina a riprendere fiato dopo pochi passi, o a scendere i tre gradini del portone di casa, quello che fino a poco tempo fa era impossibile, quello che per una persona normale è il quotidiano. Ecco Liz, 283 chili, seduta nel giardino di casa, finalmente seduta e non più a letto, a guardare i figli che si passano la palla, e che per la prima volta la passano a lei, e lei, mamma, sempre per la prima volta, che alza il braccio e la rilancia. Questa è vita, anche questa è vita. Vite al limite non racconta la resurrezione di nessuno. Se tutto va bene, se i protagonisti riescono a seguire la dieta per almeno altri due anni, diventano normali. Altrimenti muoiono, come vaticina il dottor Nowzaradan: la sua aspettativa di vita, June, è di due anni. La sua aspettativa di vita, Chad, è di un anno. Sean, mi ascolti bene, questa sua tendenza negativa la porterà dritto alla morte. E Sean, 26 anni, 417 chili, stringe forte la mano della madre, non voglio morire mamma, non portatemi via da mia madre, quasi che a decidere della sua vita fosse il dottor Nowzaradan.
Ce la farà June a perdere gli altri 100 chili? Riuscirà Chad a sopravvivere? E Sean? Neanche una scritta sui titoli di coda – June ha perso gli altri 100 chili, Chad ha vinto la sua battaglia... Niente.
Qui si parla di possibilità, non di salvezza. Tema estraneo alla televisione, legato più alla letteratura. Non c’è intenzione educativa o edificante. Solo racconto, puro racconto. Racconto antropologico: metà documentario, metà programma tv con obiettivo da raggiungere che funziona come motore della storia, e scandisce il tempo televisivo. Racconto svincolato da qualsiasi giudizio perché il fuoco è sul dimagrimento, mentre sullo sfondo compaiono letti sfatti, bagni rotti, deambulatori, bambini troppo piccoli che accudiscono genitori infermi, adolescenti rabbiosi. Sullo sfondo scorre la vita, una vita di disagio.
Lupe, 290 chili, che inizia a ingrassare a sette anni dopo che il padre la mette nella vasca da bagno, e va via. Otto ore in acqua prima di capire che papà non tornerà mai più, povera Lupe. Da quel giorno ingrassa, ingrassa, diventa enorme. A vent’anni trova un fidanzato, Gilbert, che presto diventa il suo carceriere, lui la vuole grassa, la vuole immobilizzata per sentirsi indispensabile. La amo tanto, e se dimagrisce ho paura di perderla, piange Gilbert. Intanto chatta al computer. E dopo l’operazione di bypass, Lupe lo scopre: «Tu chatti con altre donne», e lui: «Io diffondo il verbo di Dio in rete» e lei: «A donne col seno nudo?». Poi c’è Thereta, 360 chili, 30 anni, un figlio di sei. Non esce di casa da due anni, immobile a letto, e quando arriva la notizia che può sottoporsi all’operazione di bypass, quando lei dice: io voglio cambiare, il figlio le sale addosso, la scala e allarga le braccia in un abbraccio che non la contiene tutta, ma solo un pezzetto, piccolo pezzo, minuscolo pezzo di mamma.
Prima di tutto quindi Real Time racconta storie. Storie di esseri umani impauriti e sconfitti per i quali il mondo fuori è troppo grande (se al dorso sportivo del «Quotidiano Nazionale» avessero visto Real Time, non avrebbero mai titolato La rivincita delle cicciottelle durante l’Olimpiade di Rio). La struttura dei vari programmi dà molto spazio alla caduta. Quando s’intravede una rinascita, il programma finisce. Così mentre gli altri canali continuano a proporre reality, finte riprese del reale con risoluzione, e storie edificanti, Real Time persevera nella sua scelta che diventa linea editoriale, almeno in parte: Incidenti di bellezza, Body Bizarre, Malati di pulito. La rappresentazione di un mondo malato, ossessionato, terrorizzato, fuori misura senza fornire soluzione. In questo mondo non c’è salvezza, non fa parte del racconto. Dunque: manipolazione televisiva ridotta al minimo, racconto della realtà non filtrato, costruzione anomala dove manca il lieto fine, perché poi, nella vita vera, quante cose finiscono bene?
Non solo: Real Time riesce a ribaltare persino i canoni del programma di cucina. Così di fianco a Bake off Italia, Cucine da incubo, Il boss delle torte, compare l’anomalia: Il pranzo di Mosè.
Sicilia, masseria ottocentesca, ovvero casa della conduttrice. Sullo schermo a insegnarci a cucinare la scrittrice di successo internazionale Simonetta Agnello Hornby. La novità è proprio il personaggio. La Hornby non è simpatica. O meglio: non lo è in senso televisivo. Nessun ammiccamento, nessuna moina per ingraziarsi il pubblico, tanto meno sedurlo. E la sua antipatia non è artificio, lei non è Gordon Ramsay che inizia cattivo e finisce buono in una perfetta parabola di cambiamento secondo copione. La Hornby non cambia. Uguale dall’inizio alla fine, addirittura nel vestito, blu a pallini bianchi dalla prima all’ultima puntata. Brusca, essenziale, arriva a scoraggiare il pubblico: «Potete provare a rifare la torta di limoni, purtroppo però non saranno mai questi limoni, i limoni del mio giardino», o anche: «Ora mettete tutto nel passino, questo è un passino del Seicento, non più in commercio, ma viene bene anche con un passino normale, non uguale, certo».
In poche settimane il programma diventa un cult. Perché non è semplicemente un programma di cucina, molto di più: racconto di un carattere, di un mondo, di una poetica che è poi quella della Hornby scrittrice: la donna come centro amministrativo dell’economia familiare, l’amore per la propria terra, l’arrangiarsi con quello che c’è, in cucina come altrove, ovvero, in senso più letterario: lo stoicismo al destino, siamo noi i responsabili del nostro destino. (Della stessa produzione, Pesci combattenti, oggi una delle migliori produzioni tv; nel prossimo palinsesto Real Time ci sarà Ammore infinito, già annunciato come uno dei programmi di punta, prima docu-musical-soap italiana, protagonista Gianni Fiorellino, cantante neomelodico, alle prese con l’organizzazione del suo matrimonio).
Anche quando il format è più classico quindi, nei programmi di Real Time c’è comunque un elemento dissonante, vedi Il pranzo di Mosè, o Il mio gatto è indemoniato dove è prevista la soluzione (un tizio che arriva a casa e ti educa il gatto). Nonostante il lieto fine, passa sempre un concetto inedito per la televisione. Dimenticate i gatti che fanno le fusa, i batuffoli da tenere in braccio. Dimenticate il pet mansueto, ecco invece arrivare i gatti indemoniati che non solo sconvolgono l’immaginario comune, ma minacciano il nostro quotidiano, in una dimensione quasi horror da morti viventi, i morti viventi sono tra noi, nostra madre, nostro padre, il nostro gatto. Vediamo il gatto indemoniato fare a pezzi divani, poltrone, e abiti. Soffiare inferocito, graffiare bambini, finanche mordere. In una società dove gli animali domestici rappresentano tenerezza («meglio i gatti degli esseri umani, loro non tradiscono mai», sospirano gli animalisti delusi dall’umanità), ebbene in questa società dove gli animali sono umanizzati, bambinizzati, Real Time ci racconta dei piccoli mostri, i nostri piccoli mostri. Gatti, bambini, cani. O conigli. Carnefici, vittime, in un continuo scambio di ruoli di programma in programma, o anche all’interno dello stesso programma.
Torniamo allora al coniglio dei Madison. Torniamo alla loro tavola ( Malati di risparmio ). I vicini di casa, arrivati con le sedie perché i Madison ne hanno solo cinque, si sfogano davanti alle telecamere: «Non mi era mai capitato prima d’ora», «mi ha fatto molta impressione mangiare quel coniglio, sapere da dove veniva... alla fine però devo ammettere che era buono». Insomma, la cena procede per il meglio, risate e armonia, con Rose, la bambina, che sfoggia la borsetta, oh quanto amo la mia borsetta nuova. «Dobbiamo trovare un altro coniglietto così, uguale identico», si augura la piccola, forse sognando altre borsette.
La vita reale è il coniglietto investito sulla strada. Coniglietto che diventa cena, e portachiavi, e borsetta. Real Time non fa altro che rappresentare la morte sotto mille forme. Ogni sera ci mette di fronte alla morte, quasi morte, siamo a un passo. Ogni sera stiamo per morire, e invece non moriamo. Che sia forse questo il segreto del successo, questo effetto catartico, questo senso di morte scampata ogni sera. Ma poi: anche se la morte arrivasse davvero? Tutto si trasforma, come insegna il coniglietto dei Madison. «La mia borsetta dei sogni», esulta la piccola Rose, volteggiando nel salone, il coniglio che fu stretto al cuore.