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 2016  agosto 28 Domenica calendario

Lezley McSpadden, la mamma di Michael Brown, il ragazzino nero ucciso da un poliziotto a Ferguson, racconta chi era suo figlio

Due anni dopo la morte di Michael Brown, il diciottenne afroamericano ucciso da un poliziotto il 9 agosto 2014, Ferguson è una cartolina di palazzine bianche in vendita e negozi chiusi. Non hanno riaperto dopo le rivolte scoppiate nei giorni successivi alla sua uccisione, quando Brown – colpevole di aver rubato sigarette in un negozio – è stato colpito da dodici colpi di pistola.
Da allora il quartiere, a maggioranza afroamericana (67% della popolazione), ha visto aumentare il divario tra la zona nera – serrande abbassate e auto della polizia che vigilano le strade semideserte – e quella bianca con le ville vittoriane e i grandi patii affacciati sui viali a pochi chilometri dall’aeroporto di Saint Louis.
Ci sono solo una targa e alcuni peluche a ricordare la morte di Michael Brown: orsetti e bambole disposti nel punto in cui il suo corpo è rimasto quasi quattro ore «per mostrare a tutti cosa succede se si trasgredisce la legge», spiega Tiffany Reliford, 34enne afroamericana diventata attivista quel giorno. Solo i peluche resistono: diversi memoriali sono stati distrutti da anonimi durante la notte.
Lezley McSpadden, la mamma di Michael Brown, non vuole incontrarci a Ferguson.
Sua madre, che viveva lì e ospitava Michael nell’ultima estate della sua vita, è andata via. Lezley non è tornata neanche per gli anniversari e le manifestazioni: «Rispetto il fatto che molte persone vogliano onorare mio figlio – racconta in una stanza d’albergo – ma il suo nome non deve diventare un’etichetta per persone che non sanno cosa vogliono e dove dirigere la rabbia». Lo stesso vale per lei : «Mi chiedono se sono un simbolo, una attivista, addirittura una lobbista: sono solo una madre che ama suo figlio e vuole raccontare chi fosse davvero». Per questo ha scritto un libro, «Tell The Truth & Shame the Devil» (Graywolf Press), che è la sua storia di madre adolescente e quella del suo primogenito, Michael Orlandus Darrion Brown detto Mike Mike.
Saint Louis è da sempre considerata una delle città più razziste d’America, la prima dove nel 1916 passò per referendum la segregazione razziale. Eppure Lezley racconta di non aver percepito le tensioni razziali fino al giorno in cui hanno ammazzato suo figlio: «Ho frequentato una scuola bianca e lavorato per anni in ristoranti nella zona bianca della città e mai avevo considerato la mia pelle come un problema».
La sua generazione, spiega, come quella dei suoi figli, ha cercato di mettere da parte il passato: «Viviamo il diritto di esistere come qualcosa di naturale, invece ci ritroviamo a perdere fratelli, amici, figli, amici e non sappiamo perché». La razza è diventata la risposta più semplice: «Quello che è successo a mio figlio non c’entra con bianchi e neri: uccidere un ragazzo disarmato è sbagliato, come lo è non rispondere dei propri gesti per via di una divisa che ti protegge». Secondo uno studio dell’Università Bowling Green dell’Ohio, dal 2005 al 2011 solo 41 poliziotti sono stati condannati per omicidio colposo o volontario. Anche il poliziotto che ha sparato a Brown, il 31enne Darren Wilson, è a piede libero. Molti cittadini sono con lui. Non perché siano razzisti ma – come spiega Keith Rose, attivista di Ferguson – «se devono scegliere tra le forze dell’ordine e i manifestanti, stanno con i primi»
Per descrivere le soluzioni adottate dal governo locale dopo l’omicidio di Michael Brown – ad esempio, la disposizione che chiede ai poliziotti di indossare una telecamera durante il servizio – Lezley usa la metafora molto americana del maiale con il rossetto: «Non è che poi puzza di meno o fa meno rumore».
C’è solo una soluzione: obbligare i poliziotti all’assunzione di responsabilità. Hillary Clinton le ha promesso che, se diventerà presidente, la riforma delle forze dell’ordine sarà prioritaria. «Quando mi ha parlato, Sanders aveva le idee confuse, ho avuto la sensazione che non sapesse davvero cosa fare per risolvere la situazione. Hillary invece si è posta da madre e da nonna, non ha mai giudicato me e mio figlio».
Insieme ad altre madri di afroamericani uccisi dai poliziotti – Trayvon Martin, Tamir Rice and Eric Garner – Lezley ha partecipato alla convention democratica a Philadelphia.
Con loro è anche volata a Ginevra, nella sede delle Nazioni Unite: «Non credevano a quello che succede nel nostro Paese». Quel giorno, dopo l’udienza, Lezley è tornata in albergo a piedi. Nel tragitto ha visto un bambino nero in bici: «Ho domandato alla receptionist dell’hotel perché fosse solo in bici e lei mi ha risposto che è normale a Ginevra, che non c’è pericolo. Mi sono chiesta come è possibile che nel mio Paese, la patria della libertà e delle democrazia, lo sarebbe di certo».