la Repubblica, 28 agosto 2016
Come cambia il viaggio letterario ai tempi di Tripadvisor
L’aria distratta, svagata da “collezionista di luoghi” alla Phileas Fogg? Dandismo fuori tempo. L’aristocratico protagonista del Giro del mondo in ottanta giorni, emblema del viaggio esotico e chic, non ha pronipoti. Su carta e sul web, almeno. Per cercare di capire qualcosa – consiglia Cesare de Seta nelle pagine dotte e appassionate di L’arte del viaggio (Rizzoli) – è bene evitare di «arricciare il naso con la spocchia dei parenti nobili e decaduti quali siamo noi europei». Scarpe comode e soprattutto umiltà, per andare incontro alle «migliaia di dettagli» che fanno diversi anche i luoghi all’apparenza sempre più simili.
Nell’era di TripAdvisor, dei social e delle guide reperibili online, la “letteratura di viaggio del terzo tipo” si accanisce a esplorare lo spazio che si estende fra una cartolina e l’altra. Preferisce le deviazioni, gli inciampi, accumula domande su domande. E non ha le risposte. Scarta, per cominciare, l’estetica più convenzionale: «Mi attira meno ciò che è stato etichettato come bello prima del tempo, ciò che è stato verificato dall’ente del turismo» scrive Teju Cole, scrittore nigeriano-statunitense in Punto d’ombra( Contrasto). Nel suo “giro del mondo” – da Berlino a New York, da Lagos a Wannsee, Germania, da Capri a Vancouver – lo sguardo non si fida di se stesso: Cole fotografa, isolando dettagli, e scrive. «Vediamo il mondo. Questa semplice dichiarazione diventa un contorto albero di significati. Quale mondo? Vedere come? Noi chi?».
Intende tradurre il privilegio del viaggiatore in un atto di responsabilità; rammenta a se stesso l’effettiva difficoltà di azioni ordinarie come il camminare; la serie di «scene tremolanti» che raccoglie non dà certezze, semmai accentua i dubbi. Il “punto d’ombra” del titolo è ciò che si nasconde comunque, il non svelabile o addirittura il non visibile. Mettere in discussione tutto: questo il principio.
I luoghi «accartocciati nella retorica» vanno liberati. L’espressione è di Franco Arminio, “paesologo” incluso nella recente antologia di scrittori-viaggiatori curata da Andrea Cortellessa per Exòrma, Con gli occhi aperti. I “collezionisti eruditi”, i “meta- viaggiatori” come Chatwin, gli “esuli” e gli “anti-turisti” politici come Kapuscinski sembrano ormai antiquariato: Cortellessa insegue scrittori del presente capaci di opporsi alla «fine dei viaggi» annunciata da Lévi-Strauss sessant’anni fa.
Il viaggio del terzo tipo non sarà quello di scoperta e di cambiamento radicale, né quello che «si limita a registrare il compunto esaurimento di sé»: coincide invece con uno spazio «intermedio, interstiziale, intermittente» in cui si polverizzano le nozioni di centro e periferia, identità e alterità si scambiano di ruolo.
È così che nascono gli esperimenti letterari più interessanti di questi anni, accolti spesso da sigle editoriali piccole e in fermento: L’Orma, Nn, Edt, Ali&No, i capolavori grafici di Humboldt Books, come Arrivederci dell’artista Ettore Favini, viaggio fra Sardegna e Liguria passando per laboratori tessili. Testi poco contemplativi e “problematici”, come i saggi narrativi di Boatti e Revelli sul nostro Paese; spesso in dialogo con la fotografia: gli imprevedibili viaggi in treno di Federico Pace ( La libertà viaggia in treno, Laterza), fitti di illuminanti incontri casuali, il perturbante Bambino nella neve di Wlodek Goldkorn (Feltrinelli), con le immagini di Neige De Benedetti, sulle piste dell’orrore europeo novecentesco.
Ancora paesaggi italiani nel Condominio Oltremare di Giorgio Falco e Sabrina Ragucci (L’Orma), e nel Doppio scatto di Silvio Perrella (Bompiani): la riviera romagnola d’inverno, una Napoli nascosta. I numi? Gianni Celati e Luigi Ghirri da un lato, il Calvino di Palomar dall’altro, «le sue esitazioni, le sue malinconie». «Un dettaglio ti chiama attraverso un varco dello sguardo, e tu ti lasci guidare» scrive Perrella. Basta poco, pochissimo: una gabbia per uccelli, un terrazzino, una panchina, una pietra. La scrittura si muove più disinvolta intorno al microscopico, si adatta ai luoghi che racconta, è fatta di frammenti, di lampi, di intuizioni sospese. O sono i luoghi che racconta a somigliarle? L’isola – scrive Giosuè Calaciura in Pantelleria (Laterza) – «è una scrittura, agitata di inchiostro magmatico raggelato in pantelleriti e cossiriti, chimica minerale del vulcano che è anche un prontuario di geologia universitaria. È una calligrafia nervosa di liquidi e di venti, svolazzi di amanuensi nei riccioli aguzzi di lava, smorfie cementate per sempre in un brivido di vapore al contatto del mare».
Pantelleria, dice Calaciura, è un’isola per scrittori. Deve averlo pensato anche Claudio Giunta dell’Islanda ( Tutta la solitudine che meritate, con Giovanna Silva, Quodlibet): «Nell’immagine che ho dell’Islanda mi ha sempre attratto l’idea della scarsità, perché l’idea della scarsità contiene l’idea della virtù». Giunta, tuttavia, non vuole farsi irretire dalla retorica dell’Eden felice, riprende in mano le lettere di Auden, gli rimprovera il tono moralistico, la prosa «affrettata, superficiale, una prosa appunto di viaggio più che da memoir». E quando scopre le coeve lettere islandesi di una anonima ragazza alla pari, misura con stupore la distanza tra il tono «freddo, denotativo, sarcastico, amaro, introvertito, egocentrico» di Auden e quello della ragazza Jean, a cui nulla può strappare il buonumore e la curiosità. Non accidente naturale, non vento, ghiaccio, neve, fango, non stanza maleodorante, materasso sfondato, caduta da cavallo. «Forse il segreto è non essere mai turisti ma lavorare sempre, come ha fatto Jean Young».
Rendere il passaggio in un luogo un’esperienza, non freddamente intellettuale, non lussuosamente estetica – o almeno, non solo questo. Così, anche i luoghi più familiari diventano mete di viaggio autentico. L’Appia di Paolo Rumiz ( Appia, Feltrinelli), la bulimica Sicilia di Massimo Onofri ( Passaggio in Sicilia, Giunti) – alberghi, amici, dolci, libri, in una conversazione fluviale alla Arbasino. E basta dare un’occhiata alla rivista web The Towner, splendidamente illustrata: la redazione – si legge – «viaggia e prende appunti per strada, sulle panchine, in treno»: si può raccontare la propria città, Biella, come si racconterebbe Esfahan, Iran: da stranieri.
E d’altra parte, quando assimilava Piacenza a Singapore, Giorgio Manganelli ricordava che l’ignoto, l’esotico, lo straniero andrebbero avvertiti prima di tutto sotto casa, senza jet lag.