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 2016  agosto 28 Domenica calendario

Gillo Pontecorvo e Franco Solinas, le liti tra l’occhio e la mente che fecero nascere La battaglia di Algeri

Gillo sorrideva sempre, anche quando era in collera. E gli capitava spesso. Non era un rictus, ma un antidoto spontaneo agli umori burrascosi. Nelle frequenti discussioni con Franco i toni si inasprivano facilmente. Allora regista e sceneggiatore se ne andavano ognuno per proprio conto. Ma la coppia si ritrovava presto: Gillo Pontecorvo con l’immutabile espressione tra il sereno e l’ironico, e Franco Solinas meno adombrato, con l’aria di chi si impone l’indulgenza.
La Battaglia di Algeri è nata al ritmo di quelle dispute tra Gillo e Franco, a quei tempi inseparabili compagni di lavoro. La loro amicizia era sottoposta a dura prova e al tempo stessa rafforzata dai loro caratteri complementari. Gillo era l’occhio e Franco la mente; Gillo era impaziente: Franco rigoroso, fedele ai principi. Ma i ruoli cambiavano. Si rovesciavano. La mente diventava l’occhio e l’occhio la mente. E capitava a Gillo di superare Franco sul suo terreno, quello dei principi. Non era facile, ma accadeva. Avevano bisogno di confrontare le idee e lo facevano con una passione che li conduceva a volte allo scontro. Così ricordo la gestazione di quel film.
La battaglia di Algeri non è un film come tanti altri. La presentazione degli autori aiuta a spiegarne lo stile asciutto. È un’epopea raccontata in grigio. Non si tratta soltanto di un episodio della decolonizzazione, dell’esaltazione di un popolo che si scuote di dosso il peso di un’occupazione secolare. È anche un documento di cui gli esperti della guerriglia urbana (i militari latino americani e la stessa Cia) si sono serviti per studiare il problema, senza badare al significato ideologico del film.
Gillo e Franco formavano una coppia di intellettuali per i quali ragione e passione dovevano convivere. E per i quali l’impegno politico non poteva umiliare la realtà. Gillo Pontecorvo, fratello di Bruno lo scienziato e di Guido il genetista, sognava da ragazzo di essere direttore d’orchestra. Si dedicò invece al tennis fino a quando fu costretto a sfuggire alla persecuzione degli ebrei, durante la guerra. Più tardi entrò nella Resistenza a Milano, dove diventò uno dei responsabili della guerriglia urbana. Di quel periodo non parlava mai. La Battaglia di Algeri l’ha ricondotto a quell’esperienza, questa volta con una macchina da presa. Solinas aveva l’orgoglio della nobiltà sarda cui apparteneva (come Berlinguer) e il carattere del padre ufficiale di carriera. Ha rispettato l’eredità andando in un’altra direzione. Come Gillo si dichiarava comunista. Era un comunista, non certo stalinista, ma sardo.
Mi piace cercare nella memoria le immagini di più di mezzo secolo fa perché pur essendo stato un semplice compagno, tra i tanti, degli autori impegnati a dare una forma al loro progetto, mi assale a volte l’ambiziosa impressione di avervi contribuito in qualche modo. La colpa o il merito di questa infondata pretesa va interamente a Gillo e a Franco che durante i lunghi soggiorni all’Hotel Aletti, ad Algeri, quando la guerra non era finita, coinvolgevano alcuni cronisti nella discussione sul soggetto del film in continua mutazione. Ero tra quei privilegiati. Pur essendo soltanto lo spettatore di un film ancora da realizzare, mi sentivo spesso partecipe. E poi, chissà!, c’è anche una punta di gelosia, di rimpianto, per essere stato un estraneo all’impresa.
Le sere all’hotel Aletti ci incontravamo nel bar di Guillaume, un ex legionario. Gillo e Franco si confondevano con i giornalisti. C’era ancora un clima di sospetto e la sorveglianza dei servizi segreti francesi era stretta. Inoltre l’Oas (Organizzazione dell’esercito segreto) in cui erano raccolti i coloni e i militari che si opponevano, con attentati terroristici, a una rinuncia dell’Algeria francese, era più che mai attiva. Un regista e uno sceneggiatore stranieri, conosciuti come comunisti, avrebbero attirato l’attenzione, se avessero rivelato il loro vero obiettivo. Era del resto facile scambiarli per semplici giornalisti.
Gillo e Franco, ognuno per proprio conto, si aggiravano per la città che sarebbe stato il teatro del film. Eravamo a pochi mesi dall’indipendenza e il regista e lo sceneggiatore scrutavano i quartieri d’Algeri in tutti i loro angoli, dalla Casbah al centro ancora abitato dai francesi. Li annusavano come cani da caccia. Studiavano dove Gillo avrebbe puntato la macchina da presa e Franco abbozzato la scena col relativo dialogo. Ma soprattutto ricostruivano la battaglia urbana avvenuta anni prima, nei Cinquanta. Quella era la loro storia.
Il progetto iniziale aveva come titolo Parà. L’attore protagonista doveva essere Paul Newman. L’ americano aveva tutte le qualità, fisiche ed espressive, per essere sullo schermo un paracadutista francese. Gillo me ne parlò a Roma. Franco, del quale ero amico, mi accennò più volte nella sua casa di Fregene alla trama che stava maturando. Penso fossimo alla fine degli anni Cinquanta. I parà francesi, quelli col basco rosso e quelli col basco verde della Legione straniera, tutti con le tute mimetiche cucite addosso per mettere in rilievo le sagome atletiche, erano di grande attualità. Molti ufficiali erano reduci della guerra indocinese, dove il generale de Gaulle li aveva mandati con la missione di recuperare la vecchia colonia d’Estremo Oriente. Un compito antistorico perché il colonialismo era morto con la Seconda guerra mondiale, e anche irrazionale perché il capo della Francia appena liberata dai nazisti cercava di ricostruire l’impero perduto, imponendosi di fatto come una forza d’occupazione.
La guerra d’Algeria doveva essere una rivincita dopo la sconfitta asiatica, il cui atto finale era stata l’epica battaglia di Dien Bien Phu, vinta dal generale Giap e i suoi bodoi, soldati vietnamiti, in bicicletta. Per Parigi il paese nordafricano non era una colonia, ma una parte della Francia. I paracadutisti del generale Massu avevano partecipato, con gli inglesi, nel 1956, all’ultima spedizione coloniale, quella di Suez, conclusasi anch’essa con una sconfitta, più politica che militare. Poiché gli americani avevano imposto il ritiro delle truppe franco-inglesi dal Canale, che Gamal Abdel Nasser aveva nazionalizzato. Un’altra delusione per i paracadutisti del generale Massu. Subito dopo chiamati a reprimere l’insurrezione promossa dal Fronte di Liberazione nazionale ad Algeri.
Non era una missione nobile per dei veri soldati. Era un lavoro per gendarmi. Per poliziotti. Gli ufficiali dell’Armée si impegnarono applicando quella che chiamavano la “guerra psicologica”. Le armi non bastavano per affrontare un conflitto asimmetrico, vale a dire una guerriglia che si svolgeva in mezzo alla popolazione, e con la sua complicità. Un esercito tradizionale, come aveva dimostrato la guerra indocinese (e come avrebbe provato quella successiva americana sempre in Vietnam), non poteva contare esclusivamente sulla forza militare. Doveva usare altri mezzi, quelli appunto della “guerra psicologica”, che coinvolgeva l’intera società. E che non escludeva la tortura, soprattutto in una guerriglia urbana. Alcuni ufficiali rifiutarono di applicarla e si dimisero. Il generale Massu vinse la battaglia d’Algeri, ma poi la Francia, cinque anni dopo, nel 1962, ha dovuto riattraversare il Mediterraneo, con soldati e coloni, e abbandonare il paese conquistato nel 1830.
Dalle agitate discussioni tra Gillo e Franco uscì la convinzione che i paracadutisti non potevano essere i soli protagonisti. Anzi i veri protagonisti dovevano essere gli algerini. Anche se i produttori non pensavano che un film con gli arabi dominanti sullo schermo avrebbe riempito le sale occidentali e quindi si dimostravano riluttanti a finanziarlo. Nelle conversazioni dell’Hotel Aletti sottolineai che molti ufficiali francesi impegnati in Algeria avevano partecipato alla resistenza in Francia. O avevano combattuto nei ranghi gollisti. Lo stesso generale Massu e il suo aiutante di campo, un maggiore della Legione straniera, avevano partecipato alla lotta contro i nazisti e i loro collaborazionisti francesi.
Tre anni dopo l’indipendenza, nel 1965, ritornai ad Algeri per un colpo di Stato: Ahmed Ben Bella, uno dei protagonisti della lotta armata cominciata nel 1954, era stato cacciato dal potere dall’esercito di Houari Boumédiène, proprio mentre Gillo stava girando il suo film. Per le strade della città i carri armati veri si confondevano con quelli usati per raccontare La Battaglia di Algeri. Il soggetto discusso per anni si realizzava in una sintesi geniale, epica, in un documento storico che riassumeva uno dei grandi avvenimenti del secolo, la decolonizzazione, e al tempo stesso svelava un’avvincente storia popolare. L’eroe non era un parà, non aveva il volto di un divo di Hollywood, ma quello dell’attore algerino Brahim Haggiag chiamato a interpretare Ali La Pointe, ex truffatore diventato combattente della Resistenza. E il generale Massu, che nel film veste i panni del colonnello Mathieu, era il combattente della Resistenza nella patria europea diventato repressore sulla sponda africana del Mediterraneo. Le agitate discussioni all’Hotel Aletti tra Gillo e Franco avevano dato un risultato insperato.