la Repubblica, 28 agosto 2016
Ai funerali di Stato, con Renzi, Mattarella, un via vai tra le bare e gente che continua a morire
Una palestra, tre file di bare, 35 nomi scanditi: Rita, Stefania, Andrea, Giulia, Marisol, Violeta, Savina, Alberto, Tommaso, Clara, Laura... Le vittime del terremoto. Il dolore che non ha più lacrime, il caldo che spezza il respiro, l’odore forte dei fiori sui feretri. Ad Ascoli Piceno, il rito crudele del congedo.
Quelle due bare bianche, dove riposano Marisol, 18 mesi, e Giulia, 9 anni, con i cuscini di rose a forma di cuoricino, un orso e un coniglio di pelouche adagiati sul legno, sono insopportabili a guardarsi. Né Marisol né Giulia hanno la mamma accanto. Martina e Michela sono in ospedale, ferite nel corpo e nell’anima, lontane dalle loro bimbe, nel giorno lungo dell’addio. Il presidente della Repubblica cerca parole caute e ferme per dare un orizzonte di speranza a chi è condannato a ricominciare: «Non vi lasceremo soli», dice. «Non vi abbandoniamo», ripete Matteo Renzi, e stringe le spalle della moglie Agnese in lacrime. Uno strazio solo esserci, solo vedere i volti dei sopravvissuti, il loro sgomento. Perché, perché tutto questo? Se lo chiede il vescovo di Ascoli, Giovanni D’Ercole, nella sua omelia, costruita raccogliendo sentimenti «anche sui social». Perché mai doveva arrivare «il boia notturno a strappare la vita», perché infliggere questa ferita bestiale agli uomini e alla terra? Le parole non bastano, a volte stonano. E Sergio Mattarella ne usa pochissime nel suo lungo peregrinare dalle tendopoli piene di bimbi di Amatrice e Accumoli, e poi lì dentro, nella palestra del dolore, accanto ai morti, quando stringe, come un padre, un giovane sopravvissuto in preda ai singhiozzi.
«Coraggio, si faccia forza», dice il presidente a Massimiliano, padre della piccola Marisol, che ride con i suoi riccioli castani nella foto sulla bara. E Massimiliano, pieno di cerotti, lo sguardo perso, gli dice sì, che ci proverà a vivere oltre la tragedia: «Lo devo alla mia piccola». Meglio ricordare i morti nei loro ultimi giorni di serenità, di leggerezza. Anche Giulia sorride nella sua maglietta color fucsia, con la scritta “World“. La zia Alessandra, la gamba ingessata, dondola la testa avanti e indietro: «Giulia, Giulia, perché doveva andare così?». Nell’aria il suono di un violino, un coro che intona l’Alleluja.
Come è tenera e solare l’immagine di Pietro Rendina e Clara Paradisi, una vita insieme, lui 85, lei 78. La sera prima di morire erano seduti sulla panca della loro casa di Arquata. Pietro aveva dato l’intonaco alle pareti, era felice, si godeva il fresco. Eccolo nella foto con il suo calice di vino bianco. La stessa foto per la bara di lei e di lui. Una vita insieme, emigrati in Canada e in Germania, venuti a morire qui. Giura il vescovo, citando Guareschi: «Le campane torneranno a suonare». Serve la fede per chi ce l’ha.
Michele, 19 anni, rivuole il suo mondo. Si è diplomato, voleva fare l’università, ora è tutto incerto, tranne la volontà di non mollare. Dice a Renzi: «La mia è una famiglia di muratori, tocca a noi ragazzi tirare di nuovo su le pareti di casa nostra e lo faremo, non ce ne andremo ma lei ci deve aiutare». Ricominciare, ripartire, crederci. Lo dicono soprattutto a se stessi, con una gran fatica, con una grande dignità, guardando il crocifisso di legno impolverato che il vescovo è andato a prendere nella chiesa distrutta di Pescara del Tronto: «Mentre ero lì hanno trovato quelle due bambine, Giulia, la più grande, abbracciata a Giorgia. La morte e la vita». Giorgia ora gioca in ospedale, nel giorno del suo quarto compleanno, con la bambola che le regala il capo dello Stato, accanto la mamma Michela. Via vai tra le bare. Ci sono i presidenti Grasso e Boldrini, anche il grillino Luigi Di Maio che recita il Padre Nostro. Arriva la notizia di un altro morto marchigiano, Marino, il cinquantesimo. Non ce l’ha fatta. È spirato all’ospedale di Perugia. Un urlo nella palestra.
Come sono soli i parenti di Violeta Moldovan, unica straniera, badante rumena, morta tra le macerie di una casa non sua. In Italia ha trovato il lavoro e la morte. Mattarella si ferma anche da loro. Accanto a Violeta, ecco le bare di Piera e Lucrezia Rendina, 51 anni e 16 anni, «due angeli curiosi della vita», le descri- ve un amico. Piera sorride al mare. La madre ottantenne stringe le mani al presidente, al fratello di Piersanti Mattarella: «Lei conosce il dolore per i morti, lei sa quanto stiamo soffrendo». Non c’è la rabbia che fa tremare la voce al cugino dei Marano, quattro morti in famiglia: «Basta con queste tragedie presidente, non lo chiedo ad altri, lo chiedo a lei».
Via Crucis infinita. Savina Pala, una bara in seconda fila, sorride in un campo di girasoli. «Che cosa si fa adesso? L’ho chiesto a Dio», ammette il vescovo.
Che cosa si fa per dare le case a chi non ce le ha, per rendere omaggio ai morti. Matteo Renzi promette: «Ci siamo e ci saremo». E la moglie Agnese si sente in dovere di aggiungere la sua voce: «Ci sarò io a ricordarglielo».
Cerimonia lunga, che toglie il respiro. Sergio Mattarella rompe il protocollo e cerca il contatto fisico. Un capo dello Stato in un certo senso “inedito” che non si stacca nell’abbraccio, che parla prima con i bimbi poi con gli adulti. Dopo la palestra, anche i feriti all’ospedale di Ascoli, con i medici e gli infermieri che applaudono. Qualcuno urla «Grande presidente». Alle due, sotto un sole cocente, esce dalla palestra la prima bara, quella della piccola Marisol. Non va al cimitero ma all’obitorio. In attesa di una sepoltura privata, quando la mamma potrà accompagnarla.