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 2016  agosto 29 Lunedì calendario

Quanta prudenza nelle guerre del Risorgimento

Raccontare le guerre d’Indipendenza è come passeggiare nel centro d’una qualunque città d’Italia, incontrando a ogni passo nomi familiari: via Pastrengo, via Goito, via Palestro, via Montebello, via Solferino, via Bezzecca... Sono tutte battaglie vinte, e cinque o sei generazioni di italiani sono cresciute imparandone i nomi fin dall’infanzia. Si sapeva, naturalmente, che c’erano state anche battaglie perse, Custoza, Novara, di nuovo Custoza, Lissa, trascurate per buoni motivi dalle commissioni di toponomastica, ma rimaneva comunque l’idea di un momento epico della storia d’Italia. Il tutto, purtroppo, somministrato con un eccesso di retorica che per anni ha sedotto gli italiani e poi, a un certo punto, ha finito con l’annoiarli; da cui il successo recente di uno pseudo-revisionismo altrettanto grossolano, fatto di maledetti Savoia e controstorie dell’Unità d’Italia.
Napoleone dimenticato
Riviste oggi con l’occhio disincantato dello storico militare, le guerre del Risorgimento colpiscono per la straordinaria incompetenza con cui sono state combattute. Napoleone aveva insegnato che quando si invade un Paese nemico non bisogna attardarsi in manovre complicate, e spendere mesi ad assediare fortezze: l’unica cosa che conta è andare a cercare l’esercito nemico e distruggerlo, poi il Paese cadrà da solo. Ma Carlo Alberto, dopo essere entrato in Lombardia fra l’entusiasmo generale, non osa passare il Mincio e attaccare Radetzky fino a quando non avrà assediato e preso Peschiera, e ci mette un mese e mezzo, come se si fosse ancora nel XVIII secolo.
Napoleone aveva insegnato che non bisogna dividere l’esercito, e che l’arte della guerra consiste nel far marciare le truppe su strade diverse ma sempre collegate, così da poter riunire tutta la propria forza entro ventiquattr’ore: ma nel 1866 gli italiani stabilirono di entrare nel Veneto in due masse separate, Lamarmora sul Mincio e Cialdini sul Po, perché il re non era riuscito a decidere chi doveva essere il comandante in capo. Napoleone aveva insegnato che bisogna sempre sapere quello che si vuol fare, star fermi solo il tempo indispensabile per completare i preparativi, e poi muoversi e non fermarsi più; ma Carlo Alberto nel 1848, l’austriaco Giulay nel 1859, Cialdini nel 1866 rimangono inattivi per settimane davanti a un nemico più debole, attanagliati dalla paura di prendere un’iniziativa sbagliata, benché dalle capitali piovano i telegrammi che li esortano a muoversi a qualunque costo.
Figlio di Napoleone, l’Ottocento umanitario e progressista non capiva più la sua eredità cinica e brutale, la sua indifferenza alle vite umane pur di raggiungere lo scopo. Nelle battaglie napoleoniche era normale che un esercito perdesse in un giorno il 15, 20, perfino il 25% della sua forza, tra morti, feriti e prigionieri, perché si continuava a combattere con ostinazione bestiale fino a strappare una vittoria decisiva. Ma nella prima vera battaglia del Risorgimento, a Pastrengo, gli austriaci battuti persero il 5% delle forze impegnate e i piemontesi vincitori appena lo 0,7%: 15 morti e 90 feriti. Queste cifre irrisorie ritornano in quasi tutte le battaglie del ’48, e vogliono dire una cosa sola: che tanto i comandanti quanto le truppe erano molto, ma molto prudenti, alla prima difficoltà si fermavano, e non spingevano mai un’azione a fondo.
Atrocità inventate
Quando arrivano i francesi, nel 1859, le cose cambiano, perché Napoleone III vuol dimostrare al mondo di non essere inferiore allo zio, e quindi fa la guerra con un altro ritmo. Ma la sera della battaglia di Solferino, dove ha perduto fra il 10 e il 15% del suo esercito, Napoleone III rimane così sconvolto davanti al campo di battaglia coperto di morti e moribondi da decidere che ne ha abbastanza, e accettare la proposta d’armistizio di Francesco Giuseppe. Gli europei dell’Ottocento erano capaci di qualsiasi delitto, come dimostra la storia coloniale, ma sentivano con molta forza che «in questo secolo», almeno fra popoli civili, certe cose non si potevano più fare.
In compenso, le guerre d’Indipendenza sono di una modernità sbalorditiva per l’invadenza dell’ideologia e della propaganda. «Il fanatismo ha pervaso ogni età, ogni ceto, ogni sesso», scrive Radetzky stupefatto durante le Cinque Giornate di Milano. I casi di atrocità sono molto rari, ma la propaganda li moltiplica: ai soldati austriaci si fa credere che le donne italiane cavano gli occhi ai prigionieri; ai soldati piemontesi si racconta che gli austriaci sventrano le donne incinte.
Contadini e operai
I resoconti dei giornalisti e i bollettini dei governi gonfiano i fatti e scatenano entusiasmi ingiustificati: dopo la battaglia di Goito, in cui gli austriaci ebbero 68 morti, Carlo Cattaneo racconta disgustato che «a Milano il governo, vanissimo e ignorante, annunciò che il nemico era fuggito dirottamente, lasciando cinquemila morti». Ma quando, in esilio l’anno dopo a Parigi, Cattaneo sentì dire che in Italia la libertà e la patria interessavano solo qualche gentiluomo ozioso, mentre il popolo lazzarone a queste cose era indifferente, s’indignò. Lui aveva visto le strade di Milano, una Milano minuscola che andava dal castello Sforzesco a Porta Romana, intasate dai cadaveri dei soldati austriaci ammazzati, a fucilate e a coltellate, da quel popolo lazzarone.
L’Italia, allora come oggi, era un Paese complicato e diviso, dove convivevano il contadino diffidente e ostile a ogni cambiamento e l’operaio di città pronto a entusiasmarsi per Garibaldi, così che da una parte e dall’altra i propagandisti potevano dire, non senza ragione, «il popolo è con noi». È un dibattito che ci portiamo dietro da allora e che non si è ancora concluso.