la Repubblica, 29 agosto 2016
Da dove viene e dove vuole andare il ct Ventura
Nella Liguria scoscesa ogni campo di calcio è un fazzoletto strappato al dorso dei monti o incastrato tra i palazzoni. Il mare, per lo più, si indovina. A Borzoli, sulle alture della fu Genova operaia, lo sfondo è lo stesso della Sestrese in bianco e nero: 1971-72, serie D. L’ultimo accosciato a destra è il ventitreenne mediano Giampiero Ventura: può indovinare il mare, non certo che 45 anni dopo diventerà il ct della Nazionale.
La più lunga gavetta del calcio italiano passa da 22 città, di cui 11 sul mare più Lecce tra Adriatico e Ionio e Pisa repubblica marinara. Si salpa da Genova città natale, si attracca a Bari città adottiva. Lungo il periplo, una carriera da professore di ginnastica, interrotta nel ‘92 a Giarre, C1. Il primo matrimonio a Genova con Rosangela, la nascita di Roberta nell’87, le seconde nozze a giugno a Bari con Luciana. E 12 tappe al Nord, 7 al sud, 3 al centro, 5 squadre da calciatore, 19 da allenatore. L’Italia è la ventesima e non si stupisce l’ex ala destra Luigino Puppo: «Giampiero è resistente come Borzoli. Appena inaugurato il campo, nel ‘70, ci si giocava così tanto che il prato durò un mese». Il resto lo fece l’alluvione: «Lui arrivò l’anno dopo. Personalità, dialettica forbita: gli arbitri lo rispettavano». Ventura aveva cominciato nelle giovanili della Samp, incrociando Marcello Lippi. Nell’ultimo anno da semipro con l’ernia del disco, a Novi Ligure in D nel ‘78, arretra a libero e gli affibbiano il soprannome di Hitchcock, per un retropassaggio da thriller. Il centravanti Merlano gli contende il titolo del meno dinamico e lui azzecca una battuta memorabile: «Fermi, chiamate la Croce Rossa». Tutti si fermano. «C’è Merlano che sta male: corre». Lupus in fabula, il commercialista Gianni Merlano: «In quel calcio ti potevi illudere, eri l’idolo delle ragazzine e il macellaio non ti faceva pagare la carne. Ma Giampiero aveva la testa sulle spalle»». E spalle larghe, ricorda il presidente di allora, Dino Roseo: «Faceva anche il rappresentante di olio combustibile. Intanto imparava da mister “Pantera” Danova, due scudetti nel Milan. Era umile». La passione per il calcio giocato trasmigrò nella Fia Casaccia Genova poi Italbrokers, squadra amatoriale di avvocati, imprenditori, professionisti. «Se non poteva giocare, faceva l’osservatore degli avversari». L’aneddoto è dell’avvocato Leo Grosso, vicepresidente del sindacato mondiale calciatori. Altri ne custodiscono l’ex capitano del Genoa Claudio Onofri o l’ex doriano Enrico Nicolini, compagni di calcetto in corso Italia, il lungomare che porta a Boccadasse. Esiste perfino il Real Ventura, mista di amici con supervisore illustre, che a fine anno consegna tuttora le pagelle.
D’altronde i voti li ha dati a lungo: ha studiato all’Isef a Milano e a Genova ha insegnato educazione fisica al Gastaldi di Dinegro, scuola per periti chimici. «Tosta: il rispetto degli studenti dovevi conquistartelo». L’ex collega Giacomo Giustolisi: «Un bravo allenatore è un docente e Giampiero sa come rapportarsi con gli allievi. La formazione dei prof era un quartetto affiatato: Ventura- Tomassetti-Garofalo-Rocchiccioli. Il preside ci assegnava il ruolo di mastini in sala professori, per le ore di supplenza. Giampiero era muscoloso: i colleghi gli davano un’occhiata e andavano in classe». La scuola creò il primo idillio con un presidente, Vittorio Chiesa, raccontato dalla figlia Caterina: «Papà lo scelse per l’Entella, perché era un professore serio, partito da zero. Una volta andarono a Milano sul Pagoda di mio padre, per comprare la punta Saltutti: arrivarono in semifinale di Coppa Italia. Presero anche Spalletti dal Castelfiorentino, portava i capelli lunghi».
Con i presidenti, inclusi Zamparini a Venezia e Cellino a Cagliari, ha avuto in genere buoni rapporti. E alle città – da Pisa, dove plasmò schemi che hanno ispirato Conte, fino a Torino del “pallone che frulla” – si è sempre adattato presto. Però nel ‘99 non fu profeta in patria, per il rimpianto di Domenico Arnuzzo, già compagno delle giovanili della Samp: «Era stato il mio giovanissimo preparatore atletico in B, con Canali. Da ds lo scelsi perché era un allenatore preparato». Promozione sfiorata: «Ma lui, con la tenacia del genovese, è arrivato in alto».
Era partito da Cornigliano, quartiere deturpato dall’industria: dai fumi dell’Italsider (Ventura portò qualche giocatore pigro a vedere la vita degli operai) e dai liquami della discarica di Scarpino. Il mare l’hanno nascosto prima l’acciaieria, poi i container del porto. Oggi è spento l’altoforno della fabbrica del sindacalista Guido Rossa, vittima delle Br. Ma nel meticciato economico degli ortofrutta ecuadoriani e dei magazzini cinesi di abbigliamento resiste un robusto substrato indigeno. Nei circoli e nei baretti intorno all’oratorio di San Giacomo si parla sempre in genovese: dei tempi in cui i ragazzi erano “misci”, senza una lira, e c’erano ancora i pescatori, come si evince dal toponimo Vico della spiaggia, dove abitava Ortensia, la nonna del ct. Tra i due figli di Mario e Maria Ventura, della bottega di alimentari di piazza Monteverdi, lui era quello che giocava nella Samp. Giampiero e il fratello Enrico si affacciavano al balcone del quarto piano o alla finestra con vista sul campetto di via Minghetti. «E il sabato giocavamo noi, vestiti normali coi pantaloni lunghi. Finivamo tutti neri: lo chiamavamo “o torneo da pûa”, della polvere». Parlano all’unisono in tre – Carlo Gatto “Micio”, Gianni Graffione “Barone”, Miro Manzoni “Biscia” – dell’albergo-bar-ristorante Cacciatori, dove ci si vantava delle ragazze e si giocava a “chiama tre”, e di quella volta che una macchina sfondò la vetrata, la gente seduta al tavolino. “Barone” rivive gli anni 60: «Giampiero era di compagnia, battuta pronta, gran giocatore di carte. Andavamo a sciare in Piemonte». “Micio” pesca nelle domeniche da tifosi: «Era sampdoriano, con simpatie juventine». “Biscia” parte in dribbling: «Un giorno gli dissi che alla Samp cercavano un preparatore: è cominciata così». Un altro giorno, Ventura traslocò a Levante, dove il mare si vede senza fabbriche davanti, e si è fermato a Sant’Ilario, dove ha villa Beppe Grillo e dove in treno arriva Bocca di Rosa.
Ora l’àncora l’ha gettata a Bari. Si è innamorato di Luciana, 28 anni più giovane, dipendente amministrativa dell’Amgas, conosciuta a una cena. Della gente calda, con la quale ama mischiarsi. Dei colori del Sud. E del mare. Nel 2009 ha ereditato da Conte la squadra e l’amicizia con l’imprenditore ex ciclista Vito Vasile, da poco scomparso. Eredita anche la Nazionale, adesso che a Bari è tornato per restare. Si è sposato nella cattedrale di San Sabino – testimone il presidente del Toro Urbano Cairo, tra gli invitati il supertorinista Piero Chiambretti – e ha preso casa a Palese, davanti all’Adriatico. Il jogging la mattina presto. Poi la sosta dal chiosco, a comprare le pesche. La bicicletta. L’abbronzatura, di cui è fanatico. Il cinema. La palestra, nell’hotel dove gli azzurri andranno in ritiro da mercoledì. Sul pratone attiguo al ristorante non c’è il pianoforte a coda, rimane la porta da calcio per le sgambate. «Allenare, per lui come per Conte, è una passione insopprimibile». Spiega l’amica fraterna Rosa Vasile che l’età non conta: a 68 anni si avvertono disincanto e responsabilità del ruolo. «Giampiero studia tutti i giorni, non lascia nulla al caso. Sdrammatizza, ma sa essere serissimo al momento giusto. Gli ho detto, quando il Toro ha vinto il derby dopo 20 anni, che gli juventini non sarebbero andati a lavorare: ha sorriso, ma non si è mica accontentato». Nello spogliatoio aveva appeso una massima di Gandhi: «Prima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti combattono. Poi vinci».
Al ristorante sul mare di Palese ha speso tante vigilie. Claudio Lasaracina, ultimo di 7 fratelli, gli preparava un cd: «Musica new age o lounge. Poi gli facevo dire la solita frase in barese. Mister, che facciamo? A ma scì a veng. Andiamo a vincere». Giovedì il marinaio salpa per l’avventura azzurra. Da Bari, stadio San Nicola.