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 2016  agosto 29 Lunedì calendario

«Ecco cosa mi ha insegnato Barenboim». Antonio Pappano racconta

Esplorare l’idea di “maestro” è un’impresa avventurosa, che deve tener conto di sentimenti sfaccettati quali la disparità, l’invidia, l’emulazione, il rifiuto e l’innamoramento. C’è chi scappa dal maestro e chi gli è grato per la vita. Chi si sente arricchito dal conflitto, come Jung con Freud, e chi ha studiato col proprio papà per poi divenire mille volte più bravo di lui, come Mozart e Picasso. E anche chi di maestri non ne ha avuti affatto, come Van Gogh e Melville. Ma in musica l’autodidatta non esiste. Il linguaggio di base è necessario, magari da filtrare, negare o rivoluzionare: partire dal nulla in campo musicale è un’utopia. Tanto è vero che il maestro per eccellenza è il direttore d’orchestra, il quale merita precisamente quest’appellativo. È lui il leader che sceglie l’andamento del pezzo e lo illustra ai musicisti per governarne l’assieme. Possiede un’impostazione generale e la distribuisce ai singoli per poi spalmarla nella totalità. Incarna la metafora del Führer, secondo il filosofo Adorno, il quale attribuì al ruolo del maestro il significato più antidemocratico possibile.
«Il maestro ha il dominio del suono e del peso, oltre a controllare l’architettura musicale e drammaturgica dell’opera», spiega l’inglese Antonio Pappano (il nome gli deriva da genitori campani, ma è cresciuto fra Londra e Stati Uniti). “Tony” – così lo chiamano tutti – ha appreso i segreti del suo lavoro da Daniel Barenboim, di cui è stato a lungo assistente, per poi trasformarsi in uno dei massimi direttori d’orchestra della nostra epoca.
Cosa significa la trasmissione del sapere in musica?
«Innanzitutto equivale al rigoroso rispetto della partitura, e a tale scopo devi conoscerla e interiorizzarla per spiegarla ai musicisti e ispirarli. Vanno sviluppati l’orecchio per il suono, l’equilibrio, la trasparenza e i passaggi di materiali fra le sezioni dell’orchestra. Devi insegnare a condividere l’esecuzione nel reciproco ascolto, a volte ammettendo che il collega è più importante di te. La musica prevede gerarchie. C’è un flusso, un’onda d’intensità mutevole, che passa da un musicista a un altro. È necessario che ci sia qualcuno capace di creare un contenimento e una cornice. Il direttore è questo».
Imparare da un maestro con più esperienza consiste anche nell’imitarlo?
«No. Se si guardano gli assistenti di Barenboim divenuti direttori d’orchestra, si vedranno, oltre a me, artisti diversi come Christian Thielemann, Simone Young, John Fiore, Omar Meir Wellber, Dan Ettinger e Philippe Jordan. Hanno tutti una loro personalità specifica. Non so se il mio gesto assomigli a quello di Daniel, ma il nostro processo di pensiero si sviluppa in maniera analoga. D’altra parte ho seguito Daniel per sei anni, e inevitabilmente qualcosa di lui mi è entrato dentro. Ma credo che fra noi esistano stacchi geografici, culturali e psicologici».
Ci parli delle vostre differenze.
«Sono un latino, quindi legato profondamente all’opera italiana, ma non soltanto. Non ho mai smesso di tentare di colmare le mie lacune, e da questo punto di vista è stato decisivo l’incontro con Daniel, il cui repertorio è sterminato. Comunque, sebbene nato in Argentina, Barenboim è un musicista ebreo con una solida e fondamentale cultura tedesca. Ogni maestro accumula informazioni e le sviluppa nel processo della propria vita, lottando con le sue influenze e il suo passato. Chiamandomi Pappano, da sempre mi viene chiesto di dirigere opere italiane. Avrei potuto fermarmi dentro questo territorio. Invece Barenboim mi ha trasmesso la curiosità di esplorare lingue e repertori diversi».
Come vi conosceste?
«Da giovane facevo una vita da zingaro come maestro sostituto in giro per l’Europa e spesso a Chicago», racconta Tony, il quale è così simpatico e bravo da convincere tutti, farsi amare da ogni orchestra e guadagnare affetto persino del pubblico sussiegoso dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, di cui è la guida musicale. Per non parlare degli esigentissimi inglesi, che lo adorano: Pappano si divide fra l’incarico sinfonico a Roma e quello operistico come direttore dell’Opera House Covent Garden di Londra. «Negli anni Ottanta», continua, «fui proposto come pianista per audizioni condotte da Barenboim, il quale era già un mito della direzione orchestrale. Doveva scegliere cantanti da ingaggiare nel festival wagneriano di Bayreuth. Io ho accompagnato al pianoforte un’aria per un soprano e Daniel disse: riguardo alla cantante non so se la prendo, ma quel pianista lo voglio di sicuro».
Vi metteste subito a lavorare insieme?
«Sì, in Germania e anche a Israele, dove facemmo il ciclo delle opere di Mozart e Da Ponte. Lavorai con lui a Bayreuth nel 1986, cominciando da Tristano e Isotta. Dal 1988 facemmo l’intero ciclo del Ring di Wagner: esaltante. Poi abbiamo collaborato a più riprese, a Parigi e altrove, sia per la musica sinfonica sia nell’opera lirica. La sua Tetralogia mi ha segnato molto: è un interprete d Wagner d’immenso respiro musicale e al tempo stesso è prioritario il suo interesse drammaturgico. Ha una lettura del teatro wagneriano che penetra con cura ineguagliabile nel rapporto tra parola e musica».
Si dice che Barenboim abbia un carattere difficilissimo. Conferma?
«Daniel sorregge il peso e la responsabilità della storia che si porta dietro. Normale ogni tanto perdere la pazienza. Persone come lui hanno il dovere di difendere la cultura nella quale sono cresciuti. Più si va avanti con l’età e più si è convinti di come devono essere le cose. Posso aggiungere che Daniel è una delle persone umanamente più generose che io abbia mai conosciuto, dotato di uno humour formidabile e di una memoria straordinaria sugli episodi del passato. È uno tra i migliori raccontatori di barzellette esistenti sulla faccia della terra».
Quale virtù pensa che le abbia insegnato meglio?
«L’equilibrio fra testa e cuore. Il dosaggio della passione. Non bisogna spargere a man bassa la passione sulla mistica, come se fosse un ragù generico. Mi ha anche fatto capire come confrontarmi con la monumentalità delle opere wagneriane. Lavorando sul dettaglio, il rischio è perdersi nella foresta vedendo solo gli alberi. Daniel insegna a dare un contesto ai particolari. In più mostra come piantare semi nel terreno dell’orchestra per poi raccogliere frutti. Quando si è direttori stabili si deve pensare non solo all’opera che si sta dirigendo in quel momento, ma all’intero universo di pensiero musicale che va comunicato al proprio gruppo».