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 1916  marzo 26 Domenica calendario

La Madonna di Mamà

(Leggi qui la puntata precedente)

Capitolo XXII

La condotta del marchese don Ippolito di Torrechiara
Ma la condotta di don Ippolito li costrinse al ritorno.
Perché don Ippolito, da quando sentì i battaglioni della storia che si approssimavano all’Italia con cupo rumore, fu preso da grande passione. Egli pensava a quello che meglio sarebbe convenuto all’Italia di fare. Ma le costruzioni dei suoi pensieri crollavano sotto la responsabilità immane del fare; crollavano sotto la responsabilità immane del non fare; e intanto la notte odorosa a Villa delle Magnolie passava insonne, mentre il rombo della cupa storia si avvicinava.
E abbandonò allora Villa delle Magnolie, e venne alla città.
Ah, come don Ippolito s’avvide in quei giorni che donna Bàrbera lo aveva saviamente consigliato a percorrere la strada degli onori politici, ché se così avesse fatto avrebbe avuto almeno una tribuna da cui parlare! Don Ippolito, pur con tutti i suoi lumi, era oscuro agli uomini rossi del serpente verde; era oscuro agli uomini neri della bianca colomba.
Era solo, e non era nemmeno senatore!
E come giunse alla città, cercò di venire in contatto con quanti conosceva uomini autorevoli, uomini di cattedra, uomini di toga, gente cioè che lo Stato nutre ed onora, gente di grande sapere e dottrina, e di gran voce; gente che sa distinguere il dritto ed il torto. Ma ora che la volta del cielo precipitava, non sapevano più distinguere, non sapevano più che dire. Essi così eloquenti, erano colpiti da afasia. Appena dicevano: «Ma sì, ma già, caro marchese: ma ecco... C’è il prò, c’è il contro. Stiamo a vedere, caro marchese. Già, un po’prepotentelli quei Tedeschi; ma è il difettuzzo delle loro belle qualità. Noi tuttavia vediamo, marchese, le cose con più serenità; il cielo, o da una parte o dall’altra, deve pure schiarire».
E vide sé, marchese Ippolito di Torrechiara, miseramente ramingo per le vie, insieme col popolo dei comizi e dei tumulti; e sentì parole di vituperio e derisione cadere sopra le sue parole.
E un giorno aveva creduto di operare bene per la salute della patria; ma probabilmente operò male per la sua personale salute. Perché si era recato presso uno di quelli uomini, i quali con molta autorità proclamavano: «guerra guerra, e presto! se no l’Austria è già cadàvere».
Andò, dunque, e dopo lunga attesa, fu introdotto.
Ma quando fu introdotto davanti a quel signore, don Ippolito stupì di trovarsi di fronte ad un giovane senza rughe, il quale trattava lui, uomo di molte rughe, come se viceversa.
«Ma forse – pensò – è un giovane di genio»; benché la sicumera e la troppa vanèsia; eleganza, facevano dubitare sulla consistenza del suo genio.
– Sinceramente, signore – disse Don Ippolito – il mio sentimento sarebbe per la guerra. Ma la politica non è il sentimento. D’altronde la testa del conte di Cavour riposa nella tomba da cinquantatre anni, e in questo tempo le democrazie non ne hanno fabbricata un’altra. Hanno fabbricate altre teste.
Il nemico per il popolo è l’Austria: ma in realtà si chiama Mefisto: al quale, sino a ieri, quelle teste hanno fatto molti inchini…
– La guerra – rispose il giovane – sarà in ogni caso benefica. Eravamo già alle porte della guerra civile.
– Ma la guerra è il sacrificio di giovani generazioni!
– Già! E cosa dev’essere altro? Se lei passa un’altra volta, avrò il piacere di ascoltare i suoi discorsi, che sono molto, molto interessanti.
E il giovane signore accompagnò don Ippolito alla porta e lì si inchinò.
Né maggior vantaggio, nei riflessi della salute della patria; e certo maggior nocumento quanto alla propria salute, riportò il marchese don Ippolito, quando si recò presso le porte, o, per dir grecamente, parà tas thiras, di uno di quei sàtrapi che tengono le moltitudini sotto la loro balia. E con mansuetudine, ma con fermezza, aveva parlato così: «Tu non vuoi la guerra, o signore, ed io non la voglio perché essa è cosa inumana. Ebbene, svela alle turbe questa verità: la patria non è un fico secco! E confessa sinceramente che tu, forse, sei stato turlupinato e alla tua volta hai turlupinato le turbe: perché la patria non è un fico secco. Forse, o satrapo, perderai la tua satrapia, ma salverai il popolo: perché così confessando, disarmerai i tuoi avversari che gridano guerra. Credi: la patria non è un fico secco!».
Ma quel signore chiamò i satelliti delle porte, e fece scacciare dal suo cospetto quel pazzo insolente che aveva osato parlare così.
E il dì seguente don Ippolito non uscì di casa.
Ciò avvenne perché don Ippolito fu colto da apoplessia.
Allora tutto il palazzo fu a rumore. Fu telegrafato a donna Barberina. La quale venne col direttissimo; e appena ella fu giunta al palazzo, ha telefonato; il signorino ha telefonato. Sono arrivati molti medici e molti amici. «Ma come l’è?» È che il marchese era sempre lì, con gli occhi di vetro e senza poter riprendere la parola. Poi i medici hanno mandato via gli amici; un medico ha mandato via l’altro medico; poi sono venute le vecchie sanguisughe; poi è venuta la notte; poi è’rimasta una monaca con lui solo, a vigilare.
Poi la monaca si addormentò, ed anche il marchese don Ippolito di Torrechiara si deve essere addormentato perché non si svegliò più.
Infine la torre di Albraccà fu vuota; ed i funerali furono di prima classe, con molte corone di fiori. E questa repentina morte era dovuta all’arteriosclerosi ed al propinare frequenter. E in questo aveva la marchesa ben veduto. Ma è la passione e il dolore che, combinandosi con l’arteriosclerosi, producono talvolta la morte repentina! E in questo la marchesa non aveva veduto bene.
Il povero Bobby fu assai triste.
– Dunque, il papà – diceva – non lo vedrò più nella sua torre di Albraccà? Neanche altrove lo vedrò più? Più?
E Aquilino non sapea che rispondere.
– Guardi, professore – disse Bobby, con una faccia triste triste – Anche il passerottino è morto!
Venne malinconia anche ad Aquilino.
E sul leggio, li in Albraccà, era aperto quel libro, dove un’ottava boiardesca diceva:
Ciascun che puote e non divieta il male,
In parte del difetto par che sia,
Ed ogni gentiluomo naturale,
Viene obbligato per cavalleria
D’esser nemico d’ogni disleale
E far vendetta d’ogni villania.
Per molte notti Aquilino non poté dormire bene.
Vedeva nella notte il fantasma del marchese che parlava con la consueta mansuetudine. «Ma sì, caro maestro, il bene vale il male; se non che il male è sudicio. Non ti pare di essere un po’sudicio, Aquilino? La tua biancheria è profumata; ma la tua anima ha bisogno di un bagno».