L’Illustrazione Italiana, 26 marzo 1916
La nostra artiglieria
Queste vive immagini della concitazione, dello sforzo, dell’impeto, delle energie tese, dell’ansia che precede un grande evento, qui raccolte e in cui si mostra con aspetti ora alacri e pittoreschi, ora gravi e severi il travaglio quotidiano delle artiglierie nell’opera di guerra, hanno, ad una ad una, trattenuto a lungo i miei sguardi in ammirazione. Ogni quadretto, ogni scena ha sollevato in me un’onda di commovimento, una corrente di simpatia. Mi pare che nessun occhio potrà sfiorarle mantenendosi freddamente curioso e senza esserne trattenuto, senza farci idealmente partecipare e collaborare all’azione che in ognuna di esse è raffigurata. A volta a volta i nostri muscoli si stirano, le mani si aggrappano, le gambe si pontano per concorrere al traino, il nostro fiato ansima rotto, e un grido rauco vorrebbe prorompere dalla gola per aizzare lo strappo decisivo; o il nostro petto si gonfia con un compiacimento orgoglioso quasi che reggessimo la forza delle tarchiate macchine trattrici che muovono solenni col loro seguito di cannoni e di uomini; o un gran brivido passa sul nostro spirito, il fiato è sospeso, sentiamo dentro di noi il cuore che martella – è la pausa che precede lo scroscio – il comando: fuoco prorompe, un attimo ancora e il ciclone di fuoco si sferra; o ci rannicchiamo in cauto silenzio come se fossimo in agguato coi cannoni coperti di frasche, trasformati in pergolati e in cespugli, i nostri sensi spiano vigili, interrogano l’ignoto; o un’ostinazione implacabile indura la nostra volontà, una sola idea concentra le nostre facoltà, dal fondo oscuro dell’essere e dell’istinto sale un suggerimento preciso, operiamo come sonnambuli, appostati dietro allo scudo o sulla piattaforma del cannone antiaereo per colpire e castigare il pirata del cielo, il sicario alato che profana l’azzurro.
A volta a volta ci immedesimiamo con tutti questi gesti, questi palpiti, questi scatti dei nostri soldati, sentiamo il loro ansito sulla nostra faccia e riempiamo il nostro cuore della loro passione; e tutta questa loro guerresca attività tanto repentina quanto precisa, dianzi così staccata da noi, così diversa dalla nostra consuetudine, ci appare adesso come la sola normale, come la sola che meriti ogni assiduo studio e cura, come la sola che abbia valore, e tutto il resto non è più che superfluo.
In tutte queste visioni di così differenti ordegni e movimenti, dove uomini e cose si aggirano e si affannano, noi scorgiamo, non
ostante la varietà delle pose e delle scene, emergere e campeggiare immancabilmente, e se anche non visibile sovrastare sensibilmente, un profilo imperioso e rigoroso, una forma semplice e solenne, un emblema quasi di potenza e di sovranità racchiuso in una linea nitida e immutabile, che dà una comune impronta a questi quadri e atteggiamenti, che ne fa come i successivi momenti ed episodi di uno stesso rito. Il rito terribile della guerra intorno al suo nume odierno, il cannone. È una nuova Via Crucis che vi si svolge e vi si illustra. In quella sacra, espressa nelle quattordici tavole tradizionali appese in ogni chiesa, e che hanno reso popolari e fisse le scene culminanti del sacrificio divino, si osservano i dignitari e le turbe muoversi e comporsi intorno al Cristo, che visibile o no, imprime l’impulso e il ritmo; in questa guerresca, in cui si disegna l’eroica passione del piccolo uomo moderno, che combatte ora come sempre per il suo ideale, per la sua libertà, per l’avvenire della sua stirpe, si avverte del pari la presenza dello stesso nume formidabile e geloso, che non consente rivali, che schiaccia con la sua figura tozza e col suo peso tutto ciò che lo circonda, che attira e richiede per sé solo tutte le sollecitudini e le preoccupazioni, tutti gli atti e tutti i pensieri dei capi e delle folle al suo seguito.
Ogni tempo e ogni popolo ha avuto il suo più agile, ma il suo schema essenziale, che par una sigla eterna come quelle dell’anfora e dell’àncora, non muta per mutar di grandezza o per mutar di paese e di artefice.
Poniamoci qui dinanzi le incarnazioni e le foggie che ora ha assunto fra noi e che sono certo tra le sue più pure ed insigni; mescoliamoci ai nostri artiglieri da montagna e da campagna, delle batterie a cavallo e dei grossi pezzi da assedio, di marina e da costa, passiamo da gruppo a gruppo, guardando in ognuno il dio d’acciaio a cui serve, in modo da discernere l’estesa ed imponente serie di questi nostri belli arnesi folgoranti. Quale superbo trofeo, quale corrusca armeria, quale fiera mostra! Non mai su più meraviglioso spettacolo di potenza creativa e di forza bellica si sarà affacciato e riacceso il nostro entusiasmo patriottico. Se vi è ancora taluno che dubita, se ancora resta qualcuno che timido indugia, venga ad attingere la certezza e la fede incrollabile al cospetto di questa poderosa e strepitosa assemblea delle magnifiche artiglierie italiane. È qui, appoggiato su migliaia e migliaia di questi cavi masselli di acciaio, che protendono i loro colli cilindrici e minacciosi contro il nemico, che attestano il prodigio di fecondità e di maestria della nostra industria e la furia con cui può sferrarsi il nostro colpo, è qui che i destini della patria acquistano l’infallibile, la radiosa fatalità della vittoria.
Come il rapito di Damasco chiamato dalla voce arcana, anche noi ci sentiamo dotati di una nuova armatura esteriore ed interiore idolo, il suo simbolo di potenza e di speranza, la sua aspirazione e il suo cruccio, il suo segnacolo di vittoria e di resurrezione, con cui accompagnava i suoi vivi ed i suoi morti, che foggiava nello stesso stampo ma in tutte le dimensioni, or gigantesco come una montagna, or minuscolo come un amuleto tascabile. L’idolo nostro, l’idolo dell’Europa, che ondeggiava incerta e insoddisfatta, mutevole e capricciosa dinanzi al disco d’oro, è da due anni a questa parte il cannone, il più sobrio, il più austero, il più rigido, il più inflessibile dei contorni in cui l’uomo abbia rinchiuso la fluida trama del suo sogno o la durezza della materia domata dalle sue mani, il più severo ed esclusivo, il più vorace e implacabile degli idoli in cui si sia proiettato il suo timore e il suo furore, la sua cupidigia e la sua disciplina.
Dai colossi mostruosi dei tempi di Luxor e di Karnak, ai verdi gingilli custoditi dai collezionisti di rarità egiziane, è sempre la stessa figura che si ripete, composta nella stessa ieratica posa, è lo stesso corpo stecchito, con le braccia aderenti al busto, piegato e inchiodato ad angolo retto su un seggio egualmente angoloso. Ancor più semplice, più schematico, più reciso è il disegno dell’idolo nostro novello, che del pari si ripete identico a se stesso in tutti i suoi esemplari di ogni dimensione. Sarà un po’più corto o un po’più lungo, un po’più panciuto o un po’più sottile, un po’più pesante o un po’che ci rende invincibili, e trasportati come lui a esclamare: Induamur arma lucis. Indossiamo le armi della luce! Poiché è nella vittoria nostra la luce a cui tutti aneliamo. Eccole queste armi della luce! Eccone l’avanguardia, i veliti agili e leggieri, l’artiglieria da montagna, i corti e gagliardi 65 mm. che salgono su per ogni sentiero, su per ogni dirupo, che si aggirano su per le nevi e i ghiacciai, che si appuntano dalle cime più alte e ardue, che al pari dei nostri incomparabili Alpini, i quali talvolta ne formano l’affusto vivente, compendiano nelle salde membra e nella sana libra la resistenza della roccia e l’agilità del camoscio. Eccone poi le schiere folte, le masse profonde, i legionari, l’artiglieria da campagna, gli snelli e mirabili 75mm. il coro animatore inesauribile della battaglia, sempre all’opera, pronti in un batter d’occhio, volteggianti nelle più svelte manovre, gagliardi, infaticabili, ben scudati, veloci al caricamento, precisi al tiro, il più perfezionato pezzo da campagna apparso sui campi latini, le batterie che scortano e rincalzano le nostre avanzate, che arrestano e falciano ogni pervicacia nemica, la cintura lampeggiante delle nostre trincee, i difensori vigili di ogni altura e di ogni valle.
Eccone la pesante falange, gli artieri dalla mazza greve, gli opliti dal lungo aculeo, che misurano i loro colpi al ritmo di un cupo barrito, l’artiglieria media da 110 e da 149mm. divenuti folti e numerosi, mobili e rapidi come erano una volta i piccoli pezzi, e non più come in passato atti a brevi risvegli fra lunghi intervalli di letargo, ma sempre in azione, arricchiti di munizioni inesauribili, sterratori, abbattitori caparbi delle difese nemiche, martellatori titanici delle posizioni più munite, sconvolgitori di ogni resistenza, capaci di stendere dinanzi alle nostre fanterie una coltre di ferro sotto cui ogni ostacolo è sepolto.
Ed eccone, in fondo al corteo, i giganti colossali, le divinità terribili che fanno tremare la terra, che manifestano il loro potere come le grandi forze della natura, di cui la voce è il tuono che riempie l’aria e la violenza è quella del tremuoto che nulla lascia intatto, che cambiano l’aspetto di una regione come uno sconvolgimento tellurico, che eruttano una vampata e una massa di materie infuocate come il cratere di un vulcano, le grosse artiglierie da 210, 260, 280 e 305mm., cannoni e mortai, pezzi allungati da marina e pezzi corti trasportabili, colossi un tempo inerti e immobili come obelischi, e che oggi invece il concorde impeto dei nostri soldati e la forza agile delle nostre macchine riescono a svellere dai loro alvei, a trainare in ogni strada e su ogni terreno, a portare sulle punte più ardite dell’avanzata e a issare miracolosamente, fra lo stupore di alleati e avversari, sulle più impervie montagne.
Il loro colpo si rovescia come una valanga, ma percuote da lontano come una meteora, e come una meteora par che piombi dal cielo. Sono stati i ministri del nostro castigo. Sono essi che hanno spezzato il giogo sotto cui l’Austria perfidamente ci opprimeva coi suoi forti sul confine, che hanno frantumato l’argine odioso e insidioso con cui l’Austria mentre sbarrava ogni nostra più legittima aspirazione apprestava invece l’invasione, sono stati i loro tremendi e ben aggiustati proiettili che hanno annientato e baluardi e cortine e lunette, che hanno atterrato muri e dighe di cemento armato, che hanno fatto saltare casematte e polveriere, che hanno frantumato torri e cupole corazzate, che hanno giustamente raso al suolo i forti di Malborghetto e di Luserna, i covi triplicemente blindati, dove l’insidia austriaca si teneva al sicuro per aggredirci a suo arbitrio.
E questi stupendi titani vendicatori e liberatori non sono dei mercenari, non provengono dall’estero, ma sono opera nostra, opera nostra esclusiva, son nostre creature, composte nella stessa nobile materia, animate dallo stesso impeto dei soldati che le adoperano e di cui sembrano intendere il linguaggio e il fervore. Sono la ferrea ed esatta prole delle nostre fonderie e delle nostre officine, sono il prodotto integro del nostro genio tecnico e meccanico, come lo sono pure tutte le altre artiglierie ora in uso nel nostro esercito: e le artiglierie da fortezza e quelle da costa, e quelle tirate giù dalle vecchie navi, che i nostri marinai puntano dalle trincee con lo stesso occhio aguzzo e con la stessa mano esercitata, come una volta dai ridotti e dalle batterie dell’Amalfi, e le nuove artiglierie automobili da campagna e antiaeree di cui le torme si accrescono di giorno in giorno, nervosi e possenti centauri – metà arma e metà motore – lanciati al galoppo con la gola aperta da cui avventano fiamme contro i mostri alati che tentano di calare dalle nubi.
Tutte queste armi diverse e innumerevoli, precise e perfette, che rappresentano la più moderna e progredita tecnica balistica, che portano l’impronta della mano la quale sa trattare magistralmente l’acciaio e che è esperta in tutti gli ardimenti della metallurgia, questi cannoni che mentre sono un indice di primato industriale, attribuiscono al nostro esercito la superiorità di un armamento moderno e scientifico di prim’ordine, sono tutti la costruzione ultima e integrale della nostra giovane e possente industria, insieme all’esercito la forza più superba e valorosa d’Italia, attrezzata, organizzata mirabilmente così da non aver nulla da invidiare alle anziane e famose industrie straniere, così da bastare pienamente a se stessa, e che davanti al paese quasi inconsapevole è balenata in tutta la sua rigogliosa prestanza e oggi si incorona della benemerenza suprema di aver rinsaldata e rinforgiata la spada di Roma, di aver temprata e affilata su una cote che non tradisce la fiammeggiante, l’invincibile spada della nuova Italia.
E come i nostri ingegneri, i nostri metallurgici, i nostri operai hanno creato lo strumento sicuro, così i nostri soldati lo consacrano ai fati e alla fortuna della patria.
Dalle officine, dagli arsenali, dai depositi questi lisci e bruni arnesi da guerra, che oggi hanno acquistato la visibilità con gli aeroplani e la mobilità con gli automobili, affluiscono trasportati dalle ferrovie, tirati da trattori, da quadrupedi e da uomini incessantemente, con tutta la scorta delle loro munizioni, lungo l’immenso e ondulato semicerchio della nostra fronte. Vengono collocati, piazzati, sistemati nella loro sede designata e messi in opera come altrettante macchine in uno stabilimento, ciascuna con i propri operai, fino a costituire la sterminata e favolosa officina della strage.
Sono mille e mille i cannoni allineati e appuntati, ed ogni proiettile è come la mazza ferrea di ciascuno di questi magli enormi con cui esso batte a colpi furibondi e iterati fino a venti volte al minuto. È la più vasta, la più immane, la più tonante fucina e la più assordante e ciclopica raccolta di magli, di ordegni sprigionatori di energia che mai vi sia stata, che mai fantasia abbia concepito. Sono mille e mille magli, ognuno fornito di una clava formidabile, di una potenza d’urto tremenda, che battono e pestano ininterrottamente, che spezzano, infrangono, maciullano e triturano senza posa, sono milioni di quintali di ferro, trasportati da diecine di migliaia di vagoni che si rovesciano e precipitano per ore e ore per giornate intere, tutto livellando e sconvolgendo, rinnovando sulla terra le furie della creazione mitologica primordiale o anticipando le convulsioni della distruzione apocalittica.
E la realtà supera ancora queste immagini retoriche, la realtà che ci mostra l’ordine freddo deliberato e matematico di questa tempesta e l’uomo, sereno e orgoglioso come un dio, che ne è l’autore e l’agitatore.