L’Illustrazione Italiana, 26 marzo 1916
La battaglia per Gorizia
Raccontare – rifare con le parole – una battaglia mi par difficile quanto raccontare una musica: la trasposizione avviene fra mezzi così lontani – l’azione bellica e la parola – che dopo aver letto qualunque descrizione di battaglia, anche eccellente, vien fatto di dire: bellissima, ma la battaglia è un’altra cosa. Tra l’episodio, che artisticamente può essere il più interessante, e la sintesi, a cui si vorrebbe arrivare perché la sintesi soltanto è la verità, c’è una distanza che scoraggia ogni descrittore. Era possibile un tempo in cui la sintesi appariva, per forza, alla fine della giornata, e si chiamava la vittoria o la sconfitta; oggi che la guerra assomiglia un po’da per tutto a un assedio – un assedio reciproco – tra i fatti e la sintesi, che si attende, c’è una sproporzione da render dubitosi descrittori e critici. Nella nostra guerra all’Austria per ora l’unica sintesi, non solo l’unica vera, ma anche artisticamente la più perfetta, è la raccolta dei bollettini quotidiani di Cadorna. D’altra parte si capisce che la passione del popolo italiano non possa contentarsi di rimeditare in silenzio quella prosa tacitiana. Appunto perché è un gran testo classico, il bisogno del commento è vivissimo: un commento estetico che ne analizzi le terribili magnificenze nascoste. – E c’è sempre posto – pur ferma quella pregiudiziale di sproporzione insuperabile tra la parola e la realtà – alle descrizioni dei corrispondenti di guerra anche se il posto di questi, per ordine del supremo comando, non sia in qualcuno di quegli osservatori da cui meglio potrebbero osservare. È un po’più avanti, un po’più indietro, specialmente un po’più indietro, sulle retrovie; è qui che devono affaticarsi a racimolare il significato reale di quelle fumate di granate, di quei lampi di shrapnells che vedono accentrarsi su certe posizioni, di quei tonfi e di quegli scoppiettii che danno vita – e morte – al paesaggio generalmente vuoto.
Sulle retrovie ha anche raccolto – e lo’dice – un giovane corrispondente di guerra, Bruno Astori, le note che oggi riunisce sotto il titolo La battaglia di Gorizia. Note che potrebbero essere più abbondanti o meno abbondanti, secondo i gusti, ma che in ogni modo hanno il merito per lo meno di tentare una descrizione organica, di riassumere con qualche armonia le vicende dell’ultima nostra offensiva di autunno sul medio e basso, specialmente sul basso, Isonzo.
Diceva il comunicato Cadorna del 22 ottobre: «Felicemente iniziata lungo la frontiera del Tirolo-Trentino, la nostra offensiva si propaga e si estende su tutta la fronte sino al mare». Ma l’offensiva generale, come tutti sanno, ben presto si accentrò e si intensificò nello scacchiere che militarmente e politicamente è il più importante, quello isontino, e l’impeto più energico e la difesa più dura fu nel settore tra il Corada e il mare, per culminare finalmente intorno al sistema trincerato di Gorizia, tra il Sabotino e il San Michele, e arrestarsi, col sopraggiungere delle intemperie invernali, nelle posizioni conquistate di Oslavia, sulla via maestra che poco più in là scende al ponte di Gorizia. La battaglia di Gorizia è dunque denominazione esatta: anche più esatta sarebbe quella della battaglia per Gorizia, se si vuol far propria l’opinione dei più che le proponevano come obiettivo politico-sentimentale la conquista della città italiana d’oltre Isonzo. È evidente che il comando non poteva lasciarsi guidare da un intento che non fosse quello puramente militare di rompere in un punto vitale la linea difensiva del nemico: ma se questo punto coincideva con la conquista della città desiderata, tanto meglio. Sia dunque questa terza offensiva italiana sull’Isonzo la battaglia per Gorizia: la prima – quella di giugno – non fu che una serie di operazioni di approccio alla testa di ponte e al sistema trincerato del basso Isonzo; la seconda, della fine di luglio, si concentrò quasi esclusivamente a mezzogiorno di Gorizia, conquistando il primo ciglione dell’altipiano carsico dal San Michele alla rôcca di Monfalcone; la terza, la più aspra, fu veramente la battaglia per Gorizia. E, come tutti sanno, continua.
Nella narrazione dell’Astori i momenti essenziali di quella lotta ci sono tutti. L’azione preparatoria di artiglierie aperta il 18 ottobre – che ansie e che speranze quel mattino! Pareva che la guerra cominciasse appena allora – i primi attacchi delle fanterie, a piccoli reparti per completare lo sconvolgimento dei ripari nemici nei punti fissati alle zone d’irruzione, poi l’attacco generale, sul Sabotino a sinistra, e a destra verso tutte le vette del San Michele e alla sella di San Martino, e le azioni laterali, ancora nella plaga del Sei Busi contro Doberdò, e nella regione di Plava fino alla presa di Zagora, e poi gli arresti imposti dalla pioggia e dagli uragani, e la ripresa, sempre più intensa, direttamente contro la testa di ponte di Gorizia sul Calvario, sul Podgora, su Oslavia e su quota 188. Nomi, lotte, sacrifizii, che valgono ciascuno una intera battaglia. E c’è per ciascuno quel tanto di topografia che dà al lettore se non altro l’illusione di aver anch’egli riconosciuto il terreno – compiacimento tattico – e quel tanto di colore che permette l’illusione di aver anche noi sofferto con coloro che hanno sofferto – compiacimento patriottico – per vincere. Poiché la realtà di una battaglia oggi in due modi avvince gli spettatori, vicini o lontani, a seconda dei temperamenti. C’è chi vi si sente attratto per una specie di ebbrezza sportiva – anche la tauromachia entra in codesto ordine di sensazioni – e chi vi è attratto, anche se l’attrazione contenda con qualche reazione repulsiva, da un sentimento morale, da un bisogno di partecipare almeno con la passione al fenomeno grandioso e terribile in cui la legge del dolore necessario si manifesta nella sua più perfetta organizzazione umana. Ricordo qualcuno che quei giorni correva per tutti gli osservatori, più pericolosi, e ritornava a dire il suo compiacimento ingenuo – era uno spirito ingenuo – con una frase convinta: Pare un teatro! E ricordo qualcun altro che anche andava nei punti più esposti e ritornava commosso di qualche tragico grido colto sulle labbra di un ferito mortale, ma non perciò perdeva cuore a rivedere ancora quei luoghi sinistri, a riudire quel grido pietoso. I due spiriti lontani erano egualmente presi dalla grandezza della battaglia. Anche all’infuori degli eroismi individuali, che la situazione suscita dove meno si crederebbe, pur nella sua collettività anonima e quasi invisibile, la battaglia rivela anche ai temperamenti meno entusiasti la sua natura eroica. Vi è un momento, durante una battaglia che – come questa per Gorizia – dura quasi continua quaranta giorni, in cui lo spettatore sente la fatica mortale di tutte le innumerevoli fatiche che il bollettino quotidiano riassumerà in pochi righi e gli pare che il suo organismo non possa reggere più al tormento, e che in un modo o in un altro finalmente lo sforzo debba rompersi nel suo eccesso: ma con un concentramento di energia si accorge di poter fare ancora uno sforzo più grande e più lungo, ed un altro ancora: così la capacità di lotta e di dolore, che umanamente sembra così esigua, si esalta di nuove risorse e accetta nuova lotta e nuovo dolore. È allora che la battaglia da fatto puramente umano si tramuta in una rivelazione eroica.
Anche se poi, ad un certo punto, l’impeto della lotta si esaurisca in sé stesso e l’offensiva termini senza raggiungere una di quelle soluzioni per la quale appunto si combatte: la vittoria generale e le sue conseguenze tangibili di nuovi acquisti e di nuove situazioni.
Come è avvenuto appunto nella terza battaglia dell’Isonzo, in questa battaglia per Gorizia che, nell’economia generale della nostra guerra all’Austria e nella guerra generale dell’Europa contro il germanesimo, ha avuto così grande importanza, anche senza che Gorizia sia stata conquistata e la fronte austriaca sia stata respinta tutta sopra una linea notevolmente più lontana.
Questa parte forse dovrebbe più chiaramente essere illuminata nel libro dell’Astori: che la battaglia per Gorizia è stata una battaglia non finita. È sospesa. Nelle proporzioni gigantesche della guerra moderna, una battaglia può essere sospesa da un inverno come in altri tempi un temporale di poche ore poteva sospendere una battaglia di un giorno. La partita è rimessa e rimessa in modo che l’Austria ha da temere tutto dalla ripresa. Anche perché la situazione generale è tale che noi potremo riprenderla quando parrà opportuno, mentre essa non può. Pur avendoci condotto a combattere sul terreno da essa scelto – e tutti riconoscono allo Stato Maggiore austriaco il merito di aver scelto il terreno meglio adatto alla sua difensiva – l’Austria non può sperare per sé che in una difensiva indefinita: ha ancora i mezzi meccanici per sostenerla, i mezzi attivi per tentare l’offensiva – gli uomini – non li ha più. La nostra battaglia per Gorizia glie ne ha consumati molti: fra i prigionieri che abbiamo fatto in novembre molti erano arrivati freschi freschi dal fronte della Bukovina e dalla Galizia. La inattività, in quel momento, degli eserciti alleati combattenti contro l’Austria le permetteva il riparo strategico che evidentemente non varrà più quando veramente i fronti della guerra europea sieno divenuti tutto un fronte egualmente forte ed egualmente preparato.
E forse anche questo espediente non le sarebbe bastato se, durante la battaglia per Gorizia, il tempo infernale non avesse due volte interrotto la continuità armonica dei nostri sforzi. Per quanto si dica degli effetti che le pioggie, le strade disfatte, il fango sul terreno della battaglia, hanno sopra lo svolgimento di una offensiva, nessuno che non abbia visto può averne quella convinzione assoluta che i lontani non accettano se non come una specie di scusante. La lotta allora, quando tre o quattro giorni di pioggia hanno fermato le operazioni a disegno incompiuto, non è più tra un esercito e il suo nemico, ma è tra l’uomo e il destino, tra i mezzi umani e le forze naturali. E il danno è tutto per l’attaccante che non vede più, a meno di non colpire con le artiglierie le sue fanterie in moto, che non si muove più, a meno di non combattere soltanto con l’arma bianca poiché i suoi fucili, tolti dalle trincee, si riempiono di fango.
Perciò è ragione di orgoglio che alla fine – meglio all’arresto della nostra offensiva – la nostra situazione avesse fatto un notevole progresso su quella iniziale. Non una conclusione, ma qualche cosa che era assai diverso dal punto di partenza.
Non si conosce, naturalmente, quale fosse il disegno generale del nostro comando al momento che venne l’ordine dell’offensiva. Ma si vide molto bene, dopo il bombardamento generale di tutte le posizioni nemiche, che l’attacco premeva prima di tutto sulle due ali. Al nord di Gorizia da Plava verso Monte Kuck e dal Corada al Sabotino, e al sud di Gorizia tutto intorno al sistema difensivo del Monte San Michele. Gli acquisti essendo stati allora di poche trincee, l’avversario nei suoi comunicati dava già per rintuzzato tutto il nostro attacco difensivo.
Era invece poco più che un assaggio. L’azione più intensa riprese, non solo ai due fianchi ma anche frontale, direttamente sulla testa di ponte di Gorizia, il 28 ottobre. E fu quello il momento che, senza le avversità della stagione, un resultato generale avrebbe potuto ottenersi, non ostante che nella prima pausa gli austriaci avessero chiamato rinforzi importanti alla loro difesa pericolante. L’azione di Oslavia, audacissima, perché portava il centro della lotta là, dove il nemico la credeva impossibile – i colli! di Oslavia sono dominati dal Sabotino e dal Podgora – minacciò la rottura completa della diga frontale di Gorizia. Se, presa Oslavia la prima volta, fosse stato umanamente possibile arrivare con un altro sbalzo all’Isonzo, tutto il Sabotino cadeva per manovra e i suoi difensori si sarebbero salvati a stento come quelli del Podgora. Gorizia non sarebbe stata ancora presa, ma i suoi difensori avrebbero dovuto tentare una difesa al di là della città sui colli di San Marco e lungo la Vertòibiza. Era un colpo da maestro; ma per produrre tutti i suoi effetti avrebbe dovuto svolgersi d’impeto, sino al suo compimento. Invece cominciò, il giorno dei santi, con un tempo equinoziale: i colli si disfacevano sotto la pioggia, i rincalzi e i rifornimenti si invischiavano nelle strade fangose, e le strade erano poche al movimento concentrato delle truppe. E tuttavia si vinse, e i nostri fantaccini, incrostati di mota, inseguirono gli austriaci nonostante il fuoco delle artiglierie che il nemico concentrò da tutti i cannoni del suo grande campo trincerato su quel passaggio obbligato. Ma riuscì ad arrestare lo svolgimento totale dell’azione: i nostri durarono fatiche più che umane ad afforzarsi sul terreno acquistato. Per la stessa ragione i progressi sul San Michele furono lenti. E una nuova pausa dell’azione fu imposta dal perdurare nelle pioggie e degli uragani. Temporali bassi avvolsero la battaglia, si scatenarono turbini di vento, ogni possibilità di far presto, rimase impigliata nel fango giallo e putrido delle trincee. Ma furono giorni terribili anche per il nemico; dalla parte di Zagora le nostre truppe minacciavano la strada che scende a Gorizia dal nord, dal sud la nostra pressione era arrivata già alle foci del Vipacco, il Calvario e la vetta del Podgora erano già tenute dalle nostre fanterie.
La pausa climatica salvò il nemico. Ebbe tempo di parare le minacele, poté riprendere Oslavia che, occupata da noi, era già una rottura essenziale della sua linea. La terza ripresa della nostra offensiva, dopo il 10 novembre, non poteva più svolgere di sorpresa un piano ormai chiarito anche al nemico; a noi giovò lo stesso, ma non per altro che per consolidare le posizioni prese, riperdute, riprese durante il secondo periodo. Allora venne con un nuovo periodo di pioggie anche il freddo: la neve era già sul Corada e sul Sabotino, fino al piano cadeva neve fusa. Fu miracolo se in quelle condizioni si poterono mantenere tutte le conquiste.
Conquiste di posizioni intermedie, non definitive. Per queste tutta la linea austriaca difensiva dell’Isonzo è scardinata, ma la nostra non è più comoda di quella di prima. Siamo fermi in una di quelle mosse per cui un lottatore è lì lì per atterrare l’avversario, ma appunto perché è una mossa di sforzo pare un miracolo che il lottatore vi possa indugiare un pezzo. La battaglia per Gorizia è veramente una battaglia interrotta. Costringe noi, i vincitori, ad uno sforzo continuo per non perdere nessuno dei vantaggi acquistati, costringe il nemico ad uno sforzo non meno grave per sostenersi in una situazione compromessa. Il generale Boroevic può ringraziare le streghe della tempesta che proteggono l’Austria, ma deve occupare i suoi ansiosi quartieri d’inverno a preparare un ordine di ritirata per quanto possibile strategica. Non glie ne mancano degli esempii classici nella recente storia militare dell’Austria. Gorizia è ancora sua, ma non è probabile che egli abbia il suo quartier generale in qualche cantina della città ferocemente disputata. Ed è piuttosto superfluo che il Borgomastro di Berlino si sia offerto a rifabbricare le parti bombardate della città, dopo la guerra. Il generale Boroevic, che conosce meglio di lui come stanno le cose sull’Isonzo, gli potrebbe rileggere una intervista da lui concessa, o provocata, da un giornale di Vienna, durante l’ultima battaglia. Cominciava: «Mi arrivano da molte parti lettere che mi chiedono: quando bisognerà abbandonare Gorizia…».
(Dal Marzocco)
Bruno Astori, La battaglia di Gorizia. Milano, Frat. Treves, «Quaderni della Guerra», 1916. L. 2.