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 1916  marzo 19 Domenica calendario

Fra le quinte e il ridotto

A quattro mani
A due giorni di distanza, con sorte diversa, sono stati rappresentati sulle scene di due diversi teatri milanesi due lavori drammatici, nuovi per l’Italia, che sono frutto della collaborazione: La diva della Scala di Gemma Bellincioni e Lucio D’Ambra, e L’Inganno di Gino Rocca e Pio De Flaviis.
Il caso è tutt’altro che frequente, ma se almeno il medesimo destino avesse arriso ai due lavori, se ne sarebbero potute trarre, sia pure un poco arbitrariamente, delle conseguenze sulla opportunità o meno della collaborazione. Così, invece, i pochi che in Italia sono favorevoli alla associazione di due per una sola opera teatrale, e i molti che sono contrari possono ugualmente prospettare in favore della loro tesi:
– Vedete che si può?
– Vedete che non si può?
Coloro che non credono all’esistenza di un teatro italiano e nemmeno alla possibilità che un teatro italiano sia per sorgere – ce ne sono più che non si pensi – all’annunzio di una collaborazione ringraziano gli dei.
– Se questa idea di mettersi in due per una sola commedia attecchisce, ci sarà questo vantaggio: un minor numero di commedie; forse la metà. E un respiro! –
Ma quelli che come me sperano, credono, e non negano a priori il genio comico alla nostra Nazione, accolgono o per lo meno dovrebbero accogliere con simpatia il tentativo qualunque sia per adesso l’esito della ribalta, perché dovrebbero dire:
– Si mettono in due? Avremo un maggior numero di commedie. La somma, in questo caso... è una moltiplicazione. –
Per avere un teatro italiano occorre un repertorio italiano, e il repertorio finora è scarso. La collaborazione, come vide benissimo Mario Ferrigni, sarebbe uno dei pochi mezzi sicuri per dar vita e numero al repertorio.
Che il sistema della collaborazione, cioè della commedia a quattro mani, presenti dei vantaggi, delle probabilità di buona riuscita nonostante le scarse prove di felice risultato in Italia, lo dimostra il fatto che la Nazione più ricca ha ricorso e ricorre tuttavia alla collaborazione.
Tutto il teatro di Labiche è il prodotto della collaborazione: soltanto Labiche era il pesce grosso e inghiottiva agli occhi del pubblico il pesce piccolo, cosicché i nomi dei numerosi collaboratori di Labiche è sparito più di una volta dai cartelloni ed è svanito del tutto dalla memoria del pubblico.
Sardou più volte ricorse alla collaborazione: non solo per i suoi drammi storici pei quali ebbe l’assistenza del Moreau, ma per alcune commedie brillanti. Anche in questo caso il pesce grosso, Sardou, inghiottisce il pesce piccolo, ma questo non toglie – chi se ne ricorda in Italia? neppure un capocomico – che Divorziamo è di Sardou e di Nanjac.
Ci sono poi in Francia esempi di collaborazione così stretta, che i due collaboratori come due fratelli siamesi formano una persona sola: Erckman e Chatrian, Meilhac e Halévy, De Flers e Caillavet, Nancey e Armond… Alcuni restano fedeli tutta la vita al loro compagno, come se la loro unione fosse stata consacrata e benedetta dal sindaco e dal sacerdote; altri sfarfalleggiano e mutano collaboratore con la stessa disinvolta eleganza con la quale si abbandonerebbero alle piacevolezze e alle sorprese del libero amore. Talvolta in Francia ci si mettono sino in tre, per una commedia in due atti, in un atto: Pompette, quella Pompette che il povero Giovannini aveva portato in giro per l’Italia sotto il titolo Beneficenza, è di tre. Effettivamente di tre? Può darsi.
A volte però in Francia sul cartellone apparisce il nome di un collaboratore che all’opera non ha dato... che il nome, il credito del suo nome, anche perché in Francia dove la collaborazione è una consuetudine, due nomi riuniti costituiscono poco meno che
una garanzia, mentre in Italia due nomi riuniti costituiscono un motivo di più di diffidenza. Così può avvenire in Francia che l’opera di un solo apparisca al pubblico come frutto di collaborazione, mentre in Italia apparisce se mai come opera di un solo, quello che è frutto di una collaborazione.
Ma si può dire intanto che in teatro anche la commedia più personale è l’opera di più d’uno. L’interprete, e non soltanto l’interprete, ma fino il vestiarista, l’elettricista... le dà una colorazione, una figurazione sua, cioè in qualche maniera la trasmuta. La stessa opera apparisce o può apparire fosca o luminosa, sconsolata o quasi gaia, diffusa o succinta, secondo il modo col quale è presentata alla ribalta. Non solo: ma il direttore alla prova con qualche taglio sapiente, o con un brusco calar della tela, l’attore con l’aggiunta di una parola, di una esclamazione, di un gesto, fa opera vera e propria di collaborazione. Un colpo di manicotto, un pianto dirotto trovato alla prova, una spezzatura intelligente, hanno potuto far risaltare o aggiungere un effetto e determinare un trionfo. Così ho veduto salvare da un direttore un lavoro scenico e da quello stesso direttore, per un personale singolare errore, ho visto determinare una caduta.
Io, l’ho già detto, sono favorevole alla collaborazione vera e propria, sebbene non abbia mai avuto fin qui ragione di compiacermene tutte le volte che mi sono provato.
E ho cominciato presto.
Ancora inedito, per desiderio di Enrico Panzacchi, trasformai una sua novella – Infedeltà – in opera di teatro. Il lavoro fu offerto a uno dei maggiori capocomici, il quale si affrettò a rifiutarlo. Voleva, e dal suo punto di vista non aveva torto, che sul cartellone figurasse solo il nome di Enrico Panzacchi e non il mio perfettamente sconosciuto. Il Panzacchi respinse quella condizione. Ma poi riprese il copione, lo ritoccò, e lo ripresentò col solo suo nome e con un titolo nuovo: Villa Giulia. Il lavoro fu rappresentato con mediocre successo; a me naturalmente non toccò né un applauso, né un biasimo, né un soldo.
Con Edoardo Calandra scrissi più tardi un dramma in quattro atti di vita militare, intitolato: Disciplina. Edoardo Calandra, che aveva attitudini magnifiche anche per il teatro, ma fu quasi sempre respinto (noi siamo troppo ricchi!) era un collaboratore ideale, un fratello per me. Ma eravamo tutti e due magri. Allora io ero più magro di adesso, e il teatro allora, vent’anni or sono, era più grasso, cioè più romanzesco, e più pomposo. Le commedie erano più ricche di personaggi e più complicate. Situazioni a sorpresa, feste da ballo, episodi, piccole commedie dentro la commedia. Non si giurava allora che sopra Sardou e sopra il cattivo Sardou, il Sardou scaltro uomo di teatro, ricco di trovate, ma misero di umanità. Ad ogni battuta mia o di Calandra che il compagno sfrondava, per avvicinarsi sempre più alla semplice realtà, ma che perciò ischeletriva e irrigidiva, seguiva un «bravo» del collaboratore. Così la commedia scarna, anzi scarnificata, fece un breve giro e disparve.
Una terza volta, e fu l’ultima, mi lasciai tentare dal desiderio della collaborazione per una novella di Rovetta, che era apparsa sulla «Lettura» e che trasformata in dramma si chiamò L’onomastico di Nicoletta. Che la trasformazione fosse possibile, era evidente, e chiesi a Rovetta perché appunto dal soggetto non avesse cavato un piccolo dramma:
– Perché mi ci son provato e non m’è riuscito. Prova tu. – Provai. Scrissi il dialogo: Rovetta lo lasciò in alcune scene tal quale, ma in gran parte lo rifece. Tengo presso di me il manoscritto prezioso per ricordo dell’amico indimenticabile. Il lavoro fu rappresentato… E ci procurò, a me e al Rovetta, tante male parole dai critici quante non ce ne saremmo meritate se avessimo scritto ciascuno di noi un cattivo dramma in tre atti. Tutti quanti tirarono a palla, e quelli che avevano maggior simpatia per me tirarono su Rovetta, e quelli che avevano molta stima per lui, tirarono su me: gli altri tirarono su tutti e due. Poter stroncare insieme per un atto solo due autori che non sono alle prime armi, è un’occasione che si presenta poche volte, sicché è naturale che se ne profitti quando capita. Avevamo Rovetta ed io l’intenzione di scrivere insieme una commedia molto più vasta: I commendatori; ma data l’accoglienza fatta a quel primo nostro tentativo di collaborazione, non ne facemmo più nulla.
Probabilmente la nostra unione non sarebbe riuscita fortunata. Rammento contatti più o meno frequenti tra Illica e Fontana, Butti e Hanau, Mariani e Tedeschi, D’Ambra e Lipparini, Simoni e Ojetti, Giannino Antona Traversi e Pastonchi, Pozzi e De Frenzi, Adami e Fraccaroli... Qualche lieto successo, ma non una commedia trionfante. Una sola gira da qualche anno ovunque vittoriosa: l’Addio giovinezza, di Camasio e Oxilia. La morte di Camasio ha troncato per sempre una collaborazione iniziatasi con la Zingara, che avrebbe potuto dare frutti anche più saporosi e maturi.
C’è altro? io non ricordo.
Eppure le ragioni per scegliersi un collaboratore possono essere tante; per esempio trovarsi un alleato nel pubblico o sopprimere un giudice temibile. Possono essere due boutades, ma possono anche corrispondere in parte a verità i frizzi di Becque e di Bernstein.
Domandavano una volta al terribile autore della Parigina quale parte facesse Halévy nelle commedie di Meilhac e Halévy, e poiché Halévy era un mondano frequentatore di salotti, molto ben quotato nell’alta società, Becque rispose:
– Che parte fa Halévy? fa gli entr’actes.
E avendo scelto Bernstein a suo compagno per Fratello Giacomo, Pierre Weber, critico del «New York Herald» a Parigi, che ha meritata fama di spettatore severo e maligno, ed essendogli domandato perché avesse preso proprio lui, Bernstein rispose:
– Perché? Per non averlo in platea.
Ma il vantaggio di avere un collaboratore è evidente. Certo la scelta è difficile; e io capisco meno i fedeli che gli infedeli, i monogami che i poligami, in fatto di collaborazione, per quanto occorra essere prima buoni amici per diventar poi buoni compagni. E non basta nemmeno questo, perché talora una mediocre collaborazione ha distrutto una buona amicizia. Pure è utile trovare la fantasia fresca in un altro, quando la vostra fantasia è stanca; o l’energia della battuta, la precisione della frase quando avete fresca e facile l’immaginativa, ma non la sicurezza piena della parola scenica. E sopratutto io credo sarebbe utile la collaborazione tra noi, perché avremmo maggior varietà e maggior abbondanza nel repertorio. Ognuno di noi che scriviamo potrebbe aggiungere all’opera sua personale un’altra opera, senza grandi difficoltà. Chi dà una commedia all’anno, ne potrebbe dare una e mezzo. E se i giovani fossero arrendevoli, fossero modesti, i così detti arrivati potrebbero aiutarli nei primi passi, accreditarli presso i capicomici, assicurare in qualche modo la serietà dei loro tentativi. I giovani porterebbero nell’opera comune la loro giovinezza, cioè l’ardimento, l’audacia, il desiderio, quasi la smania della novità: gli anziani l’anzianità, cioè la consuetudine all’osservazione, l’esperienza della vita, la pratica del teatro, cioè la tecnica.
Sarebbero gli anziani non dei pedagoghi, ma degli amabili e saggi compagni più esperti.
Le fanciulle la prima volta che si presentano nella buona, o anche nella cattiva società, sono presentate dalle signore. Gli anziani farebbero un poco come le signore anziane: accompagnando i più giovani alla ribalta li indicherebbero all’attenzione del pubblico.