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 1916  marzo 12 Domenica calendario

La Madonna di Mamà

(Leggi qui la puntata precedente)

Capitolo XX

Italia Italia, o tu cui feo la sorte...
Aquilino fu preso da delizioso stupore quando – da quel giorno – gli si rivelò la esistenza di una terza donna Barberina, ma cara, soave, arrendevole. E considerando che quella docile e appassionata donna era proprio lei, la tremenda marchesa, non poteva sottrarsi all’ebbrezza dell’orgoglio. Forse la aveva plasmata così lui, con quel gesto della sua mano brutale. Ed oltre all’orgoglio, anche il piacere! perché se quello non era proprio il sognato amore con gli angioli, era pur sempre un delizioso amore.
Oh, ammirabile, o insospettata, o tutta rivelata a lui, donna Barberina!
Un colpo d’audacia, l’uomo crea la donna, anche se la donna è una marchesa. Non è sublime tatto ciò?  E il giovane masticava quest’idea del possesso, della conquista, del piacere; e sentiva una gran pienezza di vita.
Aveva temuto di provare rimorso davanti al marito… Ma no! Non ne provava, e ne era sorpreso. Dalla coscienza non gli giungeva più alcuna comunicazione in proposito. Doveva simulare bensì e dissimulare alla presenza di don Ippolito: ma donna Barberina gliene offriva l’esempio con tanta grazia, con tanta naturalezza; e lui sarebbe stato da meno? Anzi quell’esercizio dell’ingannare gli si presentava, a tratti, come una cosa singolare e non elencata fra le virtù dell’uomo.
Ma con tutto questo non poté reprimere una certa perturbazione il giorno che il marchese don Ippolito, coi baffi arruffati più che mai, gli occhi quasi truci (come diceva donna Barberina), e una lettera in mano, gli disse:
– Devo significarvi una cosa molto grave, giunta a mia notizia. – E così dicendo, accennava ad un sedile, sotto una dea Pomona, la quale si era pudicamente ricoperta di muschio il seno marmoreo.
Che cosa poteva contenere quella lettera?
– Anch’io sono turbato, maestro. – cominciò don Ippolito a dire, e la testa gli cadde in giù. Sollevàndola poi e presentando la faccia tutta luminosa e commossa, che quasi era bello, batté lente queste parole: – Le ore attuali sono le più solenni e terribili che l’Italia abbia vissuto! E perciò beati coloro che oggi saranno liberati dalla vita.
Aquilino allora sorrise.
– Voi sorridete? Voi sorridete italice? – disse il marchese con stupore e corruccio.
È che Aquilino in quel punto non pensava all’Italia.
– Quando negli anni di grazia 1494 discese in Italia re Carlo VIII, v’era anche allora chi sorrideva!
Ad Aquilino in quel giorno importava pochissimo di Carlo VIII di Francia: ma gli fece piacere; perché se don Ippolito pensava all’Italia e alla roba di tanti secoli fa, voleva dire che neppur l’ombra di un sospetto attraversava la mente dell’ottimo signore per ciò che riguardava le cose circostanti.
E perciò fece il volto compunto di attenzione e lasciò che il marchese viaggiasse il largo mare delle sue divagazioni. E cominciò così:
– Ahi! che cosa valsero all’Italia le sue arti, i suoi studi eleganti, ed il risorto Platone? e quel Leonardo? e le statue nate dalla divina frenesia di Michelangelo? e la decantata saggezza di quel Lorenzo, magnifico e pacifico?
Noi seguitammo a sorridere per le facezie degli zanni: scarpa larga e gotto pien, prendi el mondo come vien! E i dotti a disputare se questa voce è fosca; se quella è saporosa di Marco Tullio: o tutt’al più, sospirare, Italia Italia, o tu cui feo la sorte! Noi diventammo intanto merce da baratto fra i potenti del mondo. Le armi! le armi! la forza e la concordia! E sapete voi, maestro, chi, in quell’anno di grazia 1494. previde le sventure d’Italia e predicò la concordia e le armi? Un umanissimo gentiluomo, il quale sapeva altrettanto bene maneggiare la spada, come trattare i civili negozi. Io vi ho nominato quel conte e poeta che fu Matteo Maria Boiardo; e ne vedeste, se vi ricorda, il volume sul mio scrittoio. A sua dilettazione e conforto egli veniva componendo la favola o romanzo di quel barbuto paladino Orlando, al quale, a mezzo della vita, capitò mala ventura: innamorarsi della bianca Angelica! ed ella ne fece strazio e beffa; guidalo per le mordacchie, l’eroe! fagli vedere la luna nel pozzo! Del che non meravigliatevi, perché tale è sempre stato il destino degli eroi: e le belle donne non amano che i vanesi e baliosi giovincelli.
A questo punto Aquilino corrugò le ciglia. Dove andava a dar di cozzo la nave del marchese? Per fortuna, prese ancora il largo e proseguì: – E se i nostri rètori meglio avessero lette quelle ottave fiorite in gioia di primavera, noi vanteremmo un’opera, per cui la gloriosa favola di Don Chisciotte apparirebbe come seconda. Ahi, la infernal tempesta della spietata guerra interruppe quel canto, ed il nobile conte, in quel tardo autunno del 1494, ne morì di crepacuore; e non per l’inganno di Angelica, ché in fondo può reputarsi natural sacrifizio dell’uomo essere seviziato da bella donna: ma per le sventure d’Italia.
«Oh, allesso mi pare che filiamo bene» pensò Aquilino, libero oramai da ogni sospetto, ché quanto all’Italia egli non sentiva i timori del marchese. «L’Italia è tanto grande ed antica che nessuna balena la avrebbe ingoiata».
E il marchese proseguì:
– Che debbo dirvi di quello che oggi avviene, maestro? Io sono stato sin qui un razionabile ammiratore del popolo germanico e riconosco che dal tempo di Fichte in poi i Germanici hanno dalle nostre idee democratiche latine formato un organismo ammirevole e degno di seria considerazione.
È vi dirò in confidenza che, al principiar della guerra, quasi mi compiacqui della fiera lezione di cose che i Germani, dalle teste ubbidienti, impartivano alle teste delle nostre democrazie, buone a muovere i mulini a vento dell’utopia; e come i Torrechiara militarono sotto Carlo V, io non avrei reputato disdicevole rispondere all’eribanno del Cesare germanico. Quando non si può essere signori, non è disdoro confessar di esser buoni vassalli.
Così dicendo, parve al marchese di aver proferita cosa gravissima. Sospese il suo dire e attese dal suo ascoltatore una obbiezione.
Aquilino nulla disse, e il marchese proseguì:
– Ma da quei primi giorni ad oggi il mio pensiero si è venuto cambiando.
Ma che cosa è successo nel popolo germanico? Quale follia di grandezza lo sconvolge? Ah, questa follia ha una spada, e che spada!
Noi non siamo più, come per lo innanzi credevo, di fronte alla guerra, doloroso fenomeno delle umane competizioni. E le democrazie occidentali commisero il grave errore di logica nell’ammettere tutte le ambizioni e le competizioni; e non tenere nel dovuto conto l’estrema competizione: la guerra.
La guerra, amico mio! Io ho incolpatogli altri popoli di imprevidenza: ma in realtà dovrei incolpare me stesso. Nella mia mente di uomo che attraverso i secoli è giunto al secolo nostro, non entra più l’idea di un popolo ubbriaco per la conquista di un pezzo di terra. Un pezzo di qua, un pezzo di là! E poi tutta terra! come noi, tutti uomini! un giorno, tutti sotto la terra! Sono bazzècole che possono interessare chi studia la storia, come il buon senatore. Ma per me la storia ha interesse perché non ha più nessun interesse. Siamo oggi di fronte soltanto alla guerra?
Noi siamo di fronte alla feròcia: alla feròcia che filosoficamente prima ha detto che la più grande umanità è l’essere senza pietà: poi applicazione sistematica, fredda, scientifica. E allora? Quid sum miser tum dicturus, quem patronum rogaturus? Dio? Ma Dio non è più che un’annessione germanica!
Ascoltatemi ora, giovane e caro amico: ai dì passati, tanto per divertire il pensiero, leggevo un libro di medicina, quando mi imbattei in questo… passo a proposito dell’opoterapia. Ve lo cito a memoria: «la cura del vitto carneo è assai antica: infatti nei tempi primi, l’uomo non si accontentava di soggiogare il nemico vinto: lo uccideva e lo divorava. Il sangue umano era considerato come alimento di primo ordine e altresì come agente dotato di misteriosa possanza. Il cuore, il fegato, il sangue ancor caldo, godevano soprattutto la fama di dare forza e coraggio» ecc. Dunque l’antropofagia era una forma igienica di vita! Ora io vedo, e mi par di impazzire, i sécoli avvallarsi e scomparire: vedo la nostra età mostruosamente congiungersi a quelle remote età. Inconsapevolmente allora, scientificamente adesso, uomini-belve, dal volto insanguinato. E proclamammo Dio fatto con la nostra effigie!
– Dicendo questo, il marchese si percosse la fronte con la palma della mano, non senza violenza. E poiché Aquilino, disorientato un po’a quel viaggio transoceanico attraverso i secoli, nulla ancora rispose, il marchese Don Ippolito continuò:
– Io non vi nasconderò inoltre un altro mio folle pensiero, e non lo dite alla marchesa la quale ha già così mediocre opinione di me. Sapete voi per quale ragione ogni mattina io richiedo con ansia il giornale? forse per leggervi quale è la vicenda delle armi? Anche, amico. Ma più specialmente perché mi pare che da un dì all’altro debba rimbombare la voce del miracolo, perché attendo il miracolo, attendo il portento: che quei popoli una mattina si dèstino dal sonno sanguinoso, aprano le pupille, tendano le braccia in questo unico grido: Oh Cristo, Cristo, Cristo!
Oh, vano sogno! Coloro non sembrano nemmeno più figli di questa pur crudele Natura! La parola d’amore e di pietà è morta.
I costruttori della torre di Babele costruiscono con ossa umane. E dobbiamo noi essere alleati con essi? o non piuttosto saremmo marrani e sicari? Beati quelli che ora scompaiono dalla scena della vita!
E la grossa testa sconvolta del marchese don Ippolito di Torrechiara cadde in giù.
– L’amico vostro e mio – disse poi, sollevando il volto – il conte Cosimo, sta per morire, e questa lettera me ne dà l’annuncio. Io lo reputo beatissimo. Era la cosa che vi volevo dir prima. Ma voi col vostro sorriso mi avete distratto. Perché voi avete sorriso, nevvero?
Donna Bàrbera quando seppe la triste nuova del povero conte Cosimo, volle telegrafare sùbito. La risposta venne e gravissima. Aquilino si diè malinconia e rivedeva già immerse nella nebbia e nell’ombra le cose passate. – Io voglio vederlo, salutarlo ancora – dicea. E la marchesa allora consigliò don Ippolito di andar lui con Aquilino; tanto più che il povero conte doveva trovarsi solo. Ma don Ippolito pregò di essere dispensato. Non si moveva; aveva troppe tristezze: gli pesava la testa.
– Quando è così, andremo noi – disse donna Barberina –, e mentre il professore si ferma a X…, condurrò Bobby a far qualche bagno al lido, a Venezia.
Così fu deciso.
Donna Bàrbera, Bobby, mademoiselle Joséphine,Aquilino si imbarcarono a Villa delle Magnolie, una mattina splendida, su la automobile splendida.
Bobby era radiante, l’enorme mademoiselle Joséphine trepidante.
– Su, su, su! – le diceva Bobby.
– Dove?
– Ma su!
Donna Bàrbera a destra, mademoiselle Joséphine da lato, e immobile come una vittima.
– In quattro ore ci siamo – diceva Bobby saltando presso il meccanico. – Paparone, addio!
– Mi raccomando quel ragazzo, Barberina, – ripeteva, e aveva una tristezza nella voce. E poi fece cenno, e fece fermare la automobile: accorse. Che cosa? Un altro bacio a Bobby. Era rosso in volto.
– Caro, caro, il mio piccolo Bobby!
– Arrivederci, papà.
Pas trop vite!– uscì la voce di mademoiselle Joséphine supplichevolmente fuori dal denso velo che tre volte Bobby le aveva ravvolto attorno alla testa.
– Tenersi forte perché voliamo – fu la risposta di Bobby.
– Jesus Maria!
E la automobile precipitò verso l’oriente dove Venezia, fra le cilestrine acque, eleva al cielo le sue croci d’oro e i suoi domi.
Ma nessun incidente, se non un grido soffocato di mademoiselle Joséphine.
Donna Barberina, col sottile tallone aveva, per errore di indirizzo, premuto con forza su di un largo callo di mademoiselle Josèphine.
Il volto di donna Barberina sorrideva giovanilmente da una preziosa cuffietta.