L’Illustrazione Italiana, 12 marzo 1916
“Marianna Sirca„ di Grazia Deledda¹
Il nostro giornale si è già occupato dell’ultimo romanzo di Grazia Deledda in una rassegna letteraria di Raffaello Barbiera (1915, II, pag. 452). Crediamo tuttavia possa riescire interessante questo articolo di un giovane scrittore sardo, che considera l’opera della scrittrice illustre sopratutto dal punto di vista regionale.
Taluno ha detto che nei romanzi di Grazia Deledda si vede lo studio di seguire l’ascensione della nostra terra, come essa appare all’anima sarda. Ora io non vedo i segni d’una rinascenza della Sardegna che distrugga ogni suo passato e faccia tramontare con i vecchi sogni le sue più vecchie leggende, né il nuovo atteggiamento che Grazia Deledda avrebbe preso dinanzi a tale rinascenza. Non credo a codesta rinascita, perché bisognerebbe o eccessivamente vergognarsi dello stato passato della nostra isola, o non aver mai letto un libro di storia sarda, per pensare che una terra come la nostra possa cambiar in cinquant’anni la sua faccia! Non credo al nuovo atteggiamento di Grazia Deledda, perché bisognerebbe supporre in lei un tal vecchio modo di sentire e scrivere, secondo il quale questa grande anima di artista si fosse un giorno proposto il fine di seguire passo passo nella sua opera di romanzatrice – per verità quasi da abile e acuto cronista – le vicende tutte di Sardegna dallo stato semiprimitivo di cinquant’anni or sono a quello pressoché moderno di oggi. Ella non è che il vecchio poeta della nazione che segue eserciti e popolo per dirupi e balze alla battaglia e con essi divide la fortuna: qualunque essa sia. perché dunque parlar ancora una volta di barbarie e di rigenerazione in nome di Grazia Deledda? Chi ce ne ha dato il diritto? «Mai mi sono proposto niente – mi diceva giorni or sono Grazia Deledda in un cordiale colloquio – mai! Ho cominciato a scrivere bambina incosciente e ho continuato a scrivere cose sarde solo perché ero sarda io: e nella mia opera vive solo l’isola nostra perché essa sola vive in me, col suo bene e col suo male». E in un impeto appassionato di nostalgia «Mai come adesso mi sono sentita carne e sangue della nostra terra! Scrivendo del mio povero racconto, non ricordatevi neppure del mio nome, ma attingete da voi i ricordi, le nostalgie, la poesia grande della nostra terra!». Ingenua confessione che pone codesta donna sarda in alto assai tra i più veri artisti e i più sani scrittori: confessione preziosa che rovescia molte cose scritte e dette e pensate di lei e della sua opera. Nessun fine dunque nella sua opera di ieri di oggi di domani, nessun altro fine se non quello di dire con vibrata commozione in un bisogno assoluto dello spirito l’eterna storia dell’anima sarda portata verso la gioia e verso il dolore, verso
il bene e verso il male in un dissidio che è la ragione stessa della nostra vita. E l’arte ecco ha il suo compito: rappresentarci intessuta da trame di un colore melanconico questa eterna storia dalle molte vicende che, se hanno per isfondo il nostro cielo sempre e la nostra tanca, variano profondamente pelle anime che entro quel cielo e quella tanca passano amando e piangendo, odiando e pregando. E quest’arte non ha mai tralignato né dalla tentazione mai si è lasciata vincere né dagli allettamenti e dalle promesse altrui a rappresentare ciò che non fosse il vero profondamente sentito. E chi ciò ancora non volesse, attenterebbe alla coscienza dell’anima della nostra scrittrice e alla purità della sua arte. É un errore che non può né deve andar oltre: non è folk-lorista Grazia Deledda: né per proprio diletto né per quello dei suoi lettori. Non mette in vetrina le nostre cose belle e sante e care né porta in processione i nostri stracci e le nostre miserie perché il caricaturista francese ci faccia lo schizzo e il tedesco il pupazzetto: né mette a nudo le anime sarde per giocarci alla berlina: no. Ella segue senza preconcetto il destino della nostra terra dove questo porta innanzi o indietro nella via che noi chiamiamo della civiltà: lo segue così perché deve seguirlo, perché sente imperiosamente di seguirlo! E chi si affatica a frugar nella sua opera, a far selezioni tra romanzo primitivo e romanzo di rigenerazione; chi comenta ancora, scioccamente, l’eterna storia di banditi: chi, insomma, parla di Grazia Deledda della prima maniera e Grazia Deledda della seconda, come si potrebbe parlare di Verlaine o di qualche altro autore eccessivamente letterario, fa opera vana. Il folk-lore necessariamente viene incontro a lei: non è lei che va alla caccia del folklore. Inestimabile pregio che ha per effetto la semplicità e solennità biblica di che sa in molte parti l’opera di lei. E se Marianna Sirca è – o io m’inganno – una delle cose sue più coscienti e più vicine a lei e quindi anche delle più sarde, gli è perché mai come adesso ella si è sentita carne e sangue della nostra terra.
Nel triste soave idillio di Marianna Sirca – l’ereditiera – e Simone Sole – il bandito – idillio che porta sul capo dei due il rombo della procella e il sorriso della primavera, che con un bacio si inizia si svolge si chiude, oh come è tutta la nostra Sardegna con la sua bella ingenuità con la tenace pietà e il suo tragico destino! Breve idillio pieno di tenerezze e di santi odi, fatto di pianti e di tormento, a cui con grande solennità partecipa tutta la natura col suo fascino eterno! La selva gli odora intorno nella notte calda e chiara, la solitudine gli fiorisce di gigli e spine come nei racconti biblici, velarî d’oro e di porpora si levano dai monti della Serra e l’albero della radura su cui canta l’usignolo e si riposa la luna gli raggia tutto come una sfera. La foresta ride nella notte... eppure le foglie che cadono dagli elci paiono lagrime... Perché? Marianna ride... eppure cadon lagrime sul capo ricciuto del bandito.
Simone ride… e cadon lagrime sulle erbe odorose del prato! Perché?... È il destino della nostra terra: è il nostro mistero di cui siam fieri e orgogliosi. Dite voi, poveri fratelli di Sardegna dispersi come Simone Sole tra picchi e soveri, lontani da tutto ciò che vi è più dolce al cuore, condannati come lui a viver nascosti nei covi di cignali, voi, nati liberi come gli uccelli: a fuggir la giustizia, voi che di giustizia avete fame e sete! Dite voi, povere donne di Sardegna intristite nelle buone opere in attesa di chi mai non viene: voi che come Marianna Sirca avete carezzato sul grembo il capo sudato del bandito e gli avete asciugato dagli occhi il pianto e il sangue dalla ferita! Quanta pietà! E quanta soave melanconia e quante affettuose memorie, o Sardegna! Il fato angoscioso di Marianna Sirca dà la febre: febre che non fiacca, che esalta anzi e fortifica. Verso la fine dei suoi sette dolori ci appare come cosa consacrata a Dio: inscrutabile nel martirio come lo stesso mistero. E quando accoglie un altro uomo guardandolo negli occhi e lo sposa perché quegli occhi simigliano a quelli di Simone, vi si scorge non la sua ma l’ultima volontà di Dio. Povera vittima d’una razza che troppo ha creduto e ubbidito al destino, al prete e alla casa! Sotto codesta triplice tirannia ha vissuto il suo più bel tempo, perché gli altri nati prima assai di lei ci hanno scrupolosamente vissuto: ma nella vigliacca tirannia non muore. Le si ribella finalmente con tutte le forze di cui è capace la sua carne e il suo spirito: trova in questo e in quella forze ignorate prima. Troppo tardi però cade dagli occhi della vergine barbaricina ridivenuta fiera e cosciente, la benda che intorno alle tempie le han tessuta insin dal suo nascere. Ma ha tanta forza e padronanza di sé ora da gridare: Ebbene, sì: io voglio andar incontro alla disgrazia! E la disgrazia le piomba addosso intera atroce ma non ad ucciderla. A redimerla. Il sangue innocente d’un uomo ch’ella non ha potuto amare d’innanzi agli altri uomini perché i retti e gli onesti avevano scomunicato, la redime. Non lei godrà però di questo divino affrancamento: troppe spade ha nel cuore infitte e troppo amare memorie le fasciano il capo! Ella si ergerà come un’erma terribile e dolorosa sull’ultima tirannia a sgominarla per sempre.
¹ Milano, Fratelli Treves, editori. L. 4.