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 1916  marzo 12 Domenica calendario

Come si rieducano i ciechi

Che cosa non si pensa, non si escogita, non si fa mai a Milano, per far fronte ai bisogni della guerra e per rimediare agli inevitabili mali che la guerra – anche se patriottica e vittoriosa – sempre arreca?...
Mesi addietro vi fu l’inaugurazione di un ospedale per la rieducazione alle opere della vita dei valorosi mutilati; ora è la volta dell’ospedale per il conforto rieducativo dei soldati che la guerra ha resi ciechi.
Una commissione «Pro soldati ciechi» presieduta dalla signora Lavinia Mondolfo è riuscita a creare presso il tanto benemerito Istituto dei Ciechi di via Vivaio, di cui sta a capo quell’antico patriotta e venerando uomo che è don Luigi Vitali – una sezione che perfettamente ivi funziona per la rieducazione professionale di coloro cui le vicende fatali della guerra hanno tolto il bene della vista.
Essi vengono realmente rieducati al lavoro, come se la perdita della facoltà visiva non significasse che la soppressione fortuita di un membro o l’impedimento di una data funzione per cui basta cambiare mestiere. La perdita della vista è infatti riguardata come qualsiasi altra mutilazione. Osservando come questi ciechi si riadattino, possano scegliere, imparino, producano, riveggano, svanisce quel senso di terrore per il quale la cecità è riguardata come la più crudele delle sventure, dal momento che si rivela così rimediabile.
Questi ciechi sono da compiangere assai più degli altri perché passarono in un attimo dalla luce alle tenebre, dalla vitalità all’inerzia, per una vampata che arse il volto o una palla che tagliò il nervo che aiuta a vedere; perché ebbero ed hanno una casa, un amore, più d’uno dei figli che con gli occhi non vedranno mai più. E il calore dell’affetto di cui si sentono circondati si trasforma in molta luce nella loro tenebra, luce che li aiuta a vedere poiché anche il lavoro, nei miracolosi progressi della tecnica della rieducazione dei ciechi, si offre facile alle loro dita dove sembra trasferirsi più acuta, anzi, la perduta facoltà.
I soldati ciechi si avvezzano a lavori d’ufficio, di dattilografia e di stenografia, e a lavori più manuali, di calzolaio, di falegname, di modellatore. Conservano nell’Istituto la gloriosa divisa con le stellette ed occupano un riparto speciale. C’è un giovanotto lombardo che scrive a macchina con una velocità prodigiosa e che, nei momenti di riposo che si concede, si aggira sicuramente per i corridoi, entra nei laboratori, va a sorvegliare il lavoro dei suoi compagni. C’è un contadino sardo, il quale ha imparato a fare il calzolaio ed ha anche promesso al colonnello medico Cambino, nel comune dialetto, un bel paio di scarpe. Uno fa il falegname, e zufola e pialla instancabilmente ed ha già finito un bel tavolo, solido, al quale intende applicare alcuni ornamenti. Un altro poi intreccia vimini e paglie colorate e ne fa dei cestini graziosi, entro i quali colloca trucioli e vi pianta in mezzo fiori finti bellissimi. Egli ha incominciato col fare la rete, l’occupazione prima del cieco, quella che gli ridà – come dicono gl’insegnanti – il senso della dimensione, dello spazio, della distanza; adesso non solo ha il senso del colore, ma il gusto del colore. Infine alcuni modellano in cartapesta, entro stampi di gesso, e coltivano già delle idee commerciali: preparano delle statuette, delle testine, dei piccoli arti di bambole, hanno già delle commissioni e si scusano se la coloritura non riesce ancora perfetta. Questione di pratica. Tranne il calzolaio, che è il più loquace e il più allegro, gli altri lavorano in silenzio, sorridenti, un po’confusi, ma confortati dell’attenzione dei visitatori che essi sentono posarsi su di loro con viva commozione.
Tempo addietro I’Istituto chiese per mezzo dei giornali alla privata generosità degli uccelli canori per il conforto dei soldati ciechi. Molte gabbie ne furono inviate e vennero poste in fondo al corridoio. Canarini, usignuoli, merli empiono tutto il giorno di gorgheggi il corridoio, e i ciechi accorrono spesso a deliziarsene. Un usignolo veramente instancabile, cieco anch’esso, espande la piccola anima canora inesauribile come se avesse coscienza del singolare pietoso dovere che compie.
L’opera della rinascita fisica dei ciechi è fatta, così, di prodigi, di meccanica, di accorgimenti da bimbi, di mesti sorrisi di poesia. Quest’opera segnerà uno dei capitoli più meritori nella storia di quanto fa la pietà milanese per le vittime della guerra. Essa costituisce una Sezione distinta dal resto dell’Istituto, ed i fondi per mantenerla furono dati per L. 30.000 dal Comitato generale di assistenza e per L. 40.000 da privati benefattori. Il Governo paga L. 3 per ogni giornata di presenza di ciascuno dei ricoverati il cui numero, per fortuna, è finora modesto. I ricoverati si fermano in media nell’istituto tre mesi, dopo tale periodo torneranno alle loro famiglie e al loro paese, e sapranno esercitare un mestiere, benedicendo certamente la generosità di Milano, che così efficacemente li ha ricondotti all’utilità della vita, dopo il sacrificio da essi compiuto per la patria.
Tale il miracolo dovuto all’assidua pietà delle signore del Comitato ed alle cure illuminate e coefficienti del medico dell’Istituto, dott. Pietro Bonfante.