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 1916  marzo 12 Domenica calendario

Carmen Sylva

Molto avrà sofferto, in silenzio, agli atroci metodi di guerra della sua patria germanica, ella così squisitamente sensibile; ella così ricca del Gemüth (l’intraducibile parola ch’esprime raffinato sentimento): – del Gemüth oggi calpestato.
Spiriti tedeschi rari come quello or ora scomparso di Carmen Sylva (la regina vedova di Rumania) offesi, si oscurano.
Ma nella patria dello Schiller, il poeta dei puri ideali, non solo vediamo, oggi, il triste tramonto del Gemüth: vediamo il «fallimento» del cristiano, dell’uomo, e Carmen Sylva era tutta «umanità», tutta legge di Cristo, infaticabilmente praticata da lei in alte, delicate opere fraterne, così opportunamente ricordate testé alla Camera italiana dall’onorevole Sonnino, fra i plausi dei deputati e delle tribune. Ella aveva la bontà profonda, la dignità semplice.
Poiché odiava la «solennità» ella, regina!: odiava il convenzionalismo, sprezzava i freni delle etichette: era in fondo una melanconica ribelle, e lo confessò nella sua lirica all’Oceano Atlantico, al quale paragona la sbattuta sua anima.
Nata il 29 settembre 1843, nel castello di Montrepos, sulle rive del Reno strepitante, dal principe Guglielmo Ermanno Carlo de Wied, Elisabetta ereditò poetiche tradizioni, avviamenti di pensiero. Sua nonna, la principessa Luigia di Wied, era poetessa: suo nonno aveva un fratello pittore, e un altro, il principe Massimiliano, era viaggiatore e naturalista: sua madre, la principessa Maria de Nassau, era eletta amatrice d’arte; il padre, il principe Guglielmo, scrisse libri di filosofia. Nell’anima, Elisabetta accoglieva la poesia dei romantici: coltivava il «fiore azzurro»; e amava la musica, educava la voce al canto.
Nel 1869, s’incontrò nel principe Carlo Hohenzollern, che, dodici anni dopo, raccolse, sui campi di battaglia, la corona di Rumania. Nel ’70, divenne madre. Ma «Itty» l’unica sua figliuola, la sua
Figliuola sole (Sonnen-Kind) morì. Nella lirica Le due madri, dove contempla Eva senza Abele, Maria del Calvario senza Gesù, passa un gemito materno; e il suo fu inesausto, infinito come il suo amore. Il dolore batté aspro su quel cuore, e ne trasse faville di poesia tenerissima. E così, quando nel 1877, si consacrò con abbandono sublime alla cura, alla salvezza dei feriti, onde in Rumania il popolo, che l’adorava, le diè il nome di «madre dei feriti» (Muna Ranitilor) ella che aveva conosciuto il dolore che sbrana, potè tutti intendere i dolori altrui; e non allora soltanto; chè, per quanto fu lunga la sua vita, allestì e visitò ospedali, eresse asili per i bambini, con quella malinconia attiva, ch’era nel fondo del suo carattere, e che traspare in tante sue pagine di novelle e di poesie. La Rumania divenne la seconda sua cara patria, ne imparò presto il linguaggio (parlava benissimo anche l’italiano), e s’innamorò delle leggende di quella terra, che serba l’orgoglio di chiamarsi figlia di Roma, ma dove e Greci e Slavi e Moldavi e danubiani e bande zingaresche ed altri ancora, percorsero il paese e vi si accamparono.
Fra le tante sue belle, c’è una pagina autobiografica bellissima, che la ritrae meglio delle penne amiche del Loti, di Louis Ulbach e della stessa Elena Vacaresco (la principale fra le mille trombe d’argento della sua fama): è uno scritto volante, firmato anch’esso «Carmen Sylva» – il bel pseudonimo che accenna all’amor del canto e alla vita schietta della singolare regina poetessa o meglio poetessa regina, che tanto scrisse, poiché aveva bisogno d’espansioni e di lavoro intellettuale.
Ella compiva il suo sessantesimo anno. La foltissima chioma era bianca (spuma delle tempeste), ma il suo spirito ardeva ancora.
Era tarda sera. Carmen Sylva ritornava da una rappresentazione shakespeariana, del Re Lear, interpretato dal nostro Novelli, a Bucarest. E commossa ancora di quel capolavoro e di quella interpretazione, trovò, gradita sorpresa, i doni più cari. Non erano diademi, non gioielli d’arte, ma umili doni deposti sulla tavola d’una sala; piccole pantofole ricamate dalle fanciulle orfanelle e sordomute dell’asilo fondato dalla madre sua in memoria del figlio estinto. Quei doni la inebbriavano.
La notte era già alta, nella silenziosa reggia di Bucarest. Una cameriera si era nascosta sotto una tavola per dare l’avvio a un occulto organino automatico, in onore della sua signora, che rientrava. «Non avrei dovuto andare più a letto – scrive Carmen Sylva. Quando ritorno a casa più tardi, ho l’abitudine di dormire sul divano del mio studio, per non interrompere al Re il primo sonno; così prezioso dopo che ha lavorato tutta la santa giornata fino a mezzanotte…» E la regina s’addormentò su quel divano accarezzando i gattini che le giravano intorno. Tale semplice scena e il suo affetto delicato per il marito, rivelano la regina scomparsa.
Ella fu accolta con festa, anco nella letteratura francese, come nella tedesca. A Parigi aveva studiato; e da Parigi ebbe l’alloro più ambito. L’Accademia la incoronò. Premiò il suo libriccino Les pensées d’une Reine (Parigi. 1882) ch’è il suo migliore dopo Astra, un romanzo di intime lotte, che, come tutt’i buoni romanzi, risveglia le coscienze. Le Pensées hanno il valore di confessioni. Danno di Carmen Sylva il candore ardito, lo spirito democratico e lo spirito di ribellione:
– La pruderie est un parfum, qui dissimule de l’air vicié.
– Vous êtes fier de vos ancêtres, a cause de leur quantité. Vos petits-fils, élévés dansces sentiments, ne verront en vous qu’un numéro d’ordre.
– Les enfant de l’amour sont généralment beaux et intelligents. Quelle critique de nos ménages modèles!
E così, spregiudicata e libera, procede. Anche attraverso una corona, pensa, spoglia di pregiudizi. La verità va sopra ogni corona. In Rumania, il Pelesch è turbinoso fiume. In Pelesch Märchen Carmen Sylva ne traduce il tono triste e le «leggende» dove il fiume stesso parla agli uccelli che trasvolano, al vento, agli alberi, al verde muschio che ammanta i vecchi macigni. Il fiume di Carmen Sylva è poeta come il suo cuore: ella gli presta voci. Così alla selva. Il suo Canto della foresta fa pensare alla pagina che Riccardo Wagner vergò sui misteriosi sussurri infiniti della foresta, spunto primo alle sue armonie profonde. La natura, anche per lei, è pensiero e poesia.
Ma anche l’Italia nostra era amata da Carmen Sylva. Quando cadde malata, ed era triste più che mai, chiese al cielo veneziano e al Lago Maggiore un alito di salute e un sorriso. Nel febbraio del 1892, la vedemmo a Pallanza. I suoi occhi azzurri infossati e quasi senza lume, sotto le troppo arcuate sopracciglia (che quasi parevano archi di battaglia) avevano alcunché di spettrale. Ma il mite sorriso sulle pallide labbra era vivo, e vivissimo il pensiero.
In una delle rare visite che ella concedeva – o meglio che i medici le concedevano – Carmen Sylva chiese a qualcuno di noi delle scrittrici italiane. A Ada Negri, ella mandò poi, in dono, a Milano, il suo ritratto fotografico con queste parole italiane: «sento con te!».
Sui grandi artisti del Rinascimento, Carmen Sylva tessè tutta una corona di sonetti. Era una nostalgia del suo spirito: qualche cosa come la nostalgia del Goethe per la patria nostra, patria dell’umanismo, creduta oggi, forse, un passero spaventato dai cannibali del Reno.