L’Illustrazione Italiana, 12 marzo 1916
“Al Fronte„¹
La penna agile, pittorica, evocatrice di Barzini, dai campi insanguinati della Francia e del Belgio (già da lui descritti nelle Scene della grande guerra)² ci porta ora al fronte italiano, facendoci ammirare le meraviglie gigantesche del paesaggio alpestre e le altezze rivali del valore italico. L’orrido, il fantastico, il sovrannaturale dei luoghi e la guerra da cercatori di nidi d’aquile che su quei dorsi impervii ha riconquistato carattere individuale, costituiscono uno spettacolo grandioso, impressionante, per cui il Barzini ha potuto sfoggiare le più vivide tinte della sua tavolozza. La grandiosità inverosimile delle scene ha ispirato al brillante giornalista delle pagine di vera poesia da cui rilevo qui qualche nota delle più colorite.
Ed eccoti i cari soldati nostri, ora come altrettanti indiani nella Jungla, ascoltare sul terreno, con orecchio selvaggio, la vicinanza del nemico, ora come comitiva spensierata, organizzare trovate e sorprese contro l’avversario, col buon umore di chi prepara una burla. Tanta è la gaiezza impavida dell’anima loro, che essi si son fatti anche orefici foggiando in anelli cesellati l’alluminio delle spolette austriache: quando la materia prima difetta, la si fa venire dall’Austria; un po’di colpi verso la trincea, ed eccoli subito serviti da una pioggia di shrapnells dispensatrice del metallo agognato.
La guerra necessariamente è lenta tra quelle cuspidi e quei baratri: si direbbe che marchi il passo in un’attesa guardinga. L’opera di morte è assidua e accanita da entrambe le parti; eppure tanto bellico furore di distruzione è regolato, è condotto con meditazione da scienziato: ogni colpo di cannone non è che la soluzione di un quesito di matematica, irto di cifre; i formidabili molossi di acciaio, i cannoni, sono schiavi di esattezze e di precisioni logaritmiche. Si può dire che il cannone ingigantendo abbia acquistato delicatezze minuziose, movimenti da apparecchio geodetico. Il Barzini s’indugia a guardare l’immane tormentum con occhio e compiacenza di artista. Ognuno di quei mostri, egli dice, viaggia con una corte numerosa, con gran seguito di inservienti come un sovrano antico; e l’otturatore lucido gli appare come lo sportello di un forziere favoloso. Questi mostri, queste belve dell’inventiva umana, che pigliano il posto dei megaterii di remote epoche geologiche, si appiattano, come felini o boa tra gli intrighi di vegetazioni tropicali, dissimulati da circostanti apparenze di giardini, mascherati da posticci d’innocente verdura, da addobbi rustici che farebbero pensare alla letizia di una festività campestre.
I nostri si arrampicano su costoni spaventosi, su pinnacoli ultramondani, e quando ridiscendono nell’abitato, hanno l’aria grave, come di chi venga dal cielo, quasi stordito al rivedere case e cose umane, vere frane d’uomini appaiono quando da un’altura superiore si lanciano all’assalto del nemico annidati più in basso per quegli scoscendimenti abissali. Gli austriaci hanno il genio del nascondiglio ed hanno buon gioco nel maneggiare gli atroci surrogati scientifici del valore militare: ma quando alla fine giunge il momento che debbono stanare per un’avanzata, è quella l’ora che aspettano i nostri, l’ora del cuore, l’ora dell’impeto sacro, proprio dell’antico valore italiano.
Tra i vari episodi ricordati noto quello dell’eroica giovinetta di Ala che fu guida preziosa ai nostri, e l’altro del padre sessantenne, volontario per stare accanto al figlio, che cade sul figlio stesso morente.
E allo slancio eroico fa mirabile riscontro il freddo calcolo per saper sfuggire e per saper colpire. In certi settori la vera guerra è fatta da esploratori, vedette, osservatori; è tutto un dialogare continuo, intrecciato di fili telefonici, per monti e per valli, tra batterie e vedette; v’è chi ha il compito di calcolare, scrutare, e adoperare pacatamente delicati strumenti di precisione come in un gabinetto di fisica, in mezzo a un inferno di esplosioni.
Sotto tanto fulminare, rovine, caduti, feriti. Presso le trincee spettacolo triste di cadaveri disseminati, peste stoffe grigie sollevate da membra irrigidite: alla trincea solo i viventi sono sepolti. E i feriti, strappati al rombo della battaglia, passano d’un tratto nella pace soffice degli ospedali, dove assaporano il benessere dell’immobilità trasognata.
Uno sguardo alla desolazione portata dagli strumenti di guerra. Nei paesi bombardati sembra spirare come un alito di morte da ogni porta; le persiane chiuse di Borgo dànno un’apparenza di paura, di chi ha serrato gli occhi per non vedere. Il Podgora, bruciato come il fianco di un vulcano, non è più che un sinistro cadavere di colle, cosparso di cadaveri d’uomini: sulla vetta tre _ tronchi superstiti ricordano le tre croci del Golgota. Presso Monfalcone, si vedono i pietosi avanzi di una vecchia villa settecentesca dove si reggono ancor sospesi lembi di adornazioni classiche, e due statue superstiti con gesto leggiadro di danze, in posa vezzosa da minuetto. A Gradisca e altrove dalle finestre sfondate brilla uno scintillio di vetri infranti, come un luccicore di lagrime.
Eppure là dove ora imperversa il furore degli uomini, regnava sovrana e inviolata tanta spirituale bellezza di grandiosi spettacoli naturali. La spaventosa tragedia della guerra si svolge nel panorama fantastico delle Dolomiti irte di favolosi torrioni e di cuspidi, enormi pilastri del firmamento, moli prodigiose che hanno l’apparenza di cose volute, di rocche gigantesche create per la guerra di divinità giganti, slanciate e immerse nel diafano oceano dell’aria, brillanti in lontananze incorporee, in un mareggiare di cime rosee e spettrali. Montenero, per esempio, ha uno strano sembiante aquilino come di supina divinità caduta. Si pensi a quanto di grande, di pauroso, di soprannaturale, la montagna aggiunge alla terribilità della guerra. La montagna imprime un carattere speciale nelle stesse popolazioni annidate come minuscoli insetti tra le sue poco ospitali anfrattuosità: la montagna, come il mare, rende gravi e devoti, per la minaccia costante del pericolo.
Visuali meravigliose si affacciano in quei luoghi da ogni parte. Le mucche che riposano placide nei sottostanti pascoli, appaiono come insetti chiari immobili sul velluto dell’erba. Il Chiese appare come tinto di un azzurro d’aria liquida, quasiché sulle cime dell’Adamello così vicino al cielo, si fosse imbevuto di serenità eterea.
In mezzo a tanta tempesta di rocce e di abissi l’occhio trova finalmente qualche riposo in due angoli di calma: Cortina di Ampezzo e la valle di Misurina, la prima ridente e gaia, la seconda immersa nella pace malinconica del suo lago. Cortina è tutta sorridente, colle casette bianche posate sui prati folti, come tolte da una scatola di giocattoli nuovi.
Sempre dal lato delle Alpi ci si offre allo sguardo il lungo serpeggiamento scintillante dell’Adige verso il quale i villaggi scendono come armenti alla beverata, mentre verso la pianeggiante superficie dell’est, Gorizia dall’alto ci appare come un torrente di case che sgorga e si spande dalle strette della vallata...
Ma intanto, per ridiscendere dalle serene visioni alpine alle ansie della nostra guerra, mentre noi italiani eravamo in tutt’altre faccende affaccendati, dimostrazioni per Ferrer, giocattoli di riforme elettorali che nessuno chiedeva, repubbliche pollaiole di Fabriana ed altri passatempi restando inermi di fronte alle quotidiane provocazioni dell’italianità assassinata oltre la frontiera, ignari della realtà che angosciava solo le autorità militari, l’Austria da lunga mano andava rafforzando le sue posizioni già naturalmente forti, indottavi da un altissimo concetto che aveva del valore italiano, e con insolente evidenza si preparava ad un’evidente offensiva, e la preparazione era vasta, meticolosa, senza risparmio. Quanto lavoro contro di noi! Ora ci possiamo spiegare il furore sportivo di bavaresi e tirolesi che si esercitava nelle località di confine sino alla vigilia della guerra.
A dispetto delle false statistiche austriache, l’italianità di quelle regioni si sente e si respira nell’aria stessa: ad Ala di soglia in soglia sussurra un dialago molle di comari venete. Al varco delle nostre truppe oltre il confine orientale vi furono dimostrazioni commoventi indimenticabili da parte della popolazione italiana già oppressa dal piedaccio austriaco. Uno scampanio di osanna e di gioia vibrò per tutte le cittadine che sentivano l’arrivo dell’esercito liberatore. Cominciò Villanova a suonare a stormo e poi successivamente risposero le chiese di Monzano, di Trevignano, di Palmanova...
Checché ne dicano gli incontentabili pessimisti, le cose sono andate meglio di quanto ci si aspettava. È noto che dagli stessi competenti l’invasione austriaca sul nostro territorio era fatalmente ammessa. Il nostro confine era ed è un terribile teatro di guerra, dove la nostra, più che avanzata, fu una scalata, una ascesa, colla quale però fu solidamente sbarrata la porta alla soglia già aperta di casa nostra, donde noi possiamo ora riguardare con tranquillità la prospettiva di un’offesa. |
La frontiera intanto cammina, o meglio, sale, e questo è il grande valore, dai più mal compreso, delle nostre operazioni’militari. Se si ripensa alla nostra infelice situazione topografica, ci coglie una paura postuma, pari a quella di chi riguarda un grave pericolo superato.
E la disciplina di guerra ha fatto miracoli: per località impervie, furono costruite strade prodigiose che cinquant’anni di pace non diedero ancora alla Calabria e alla Basilicata e ad altre regioni rimaste in uno stato semiselvaggio. Bisogna vedere per comprendere e benedire, per difficile che sia la guerra attuale che tolse al nemico la scelta del momento: si ricordi che noi dormivamo sognando una pace perenne.
A ragione, perciò, il Barzini inveisce contro coloro che non danno alla Patria che la loro maldicenza, preoccupati di qualunque buon successo, capaci in cuor loro di augurar male alla guerra nazionale per una meschina soddisfazione del loro piccino amor proprio. C’è davvero puzza di nemico in certi «si dice» che si diffondono da fonte impura e che mirano a deprimere lo spirito pubblico, obbedendo, inconsciamente o no, alle prescrizioni del manuale dello stato maggiore tedesco che suggerisce appunto, tra gli efficaci mezzi di offesa, di colpire le risorse morali dell’avversario. Chi dubita, equivale a un disertore che indebolisce il sostegno morale dei combattenti e la nazionale volontà di vincere.
E libri come questo del Barzini, che ora passano per le pubblicazioni occasionali, d’un interesse effimero del momento, saranno invece un giorno documenti preziosi che nell’avvenire più lontano faranno rivivere, nelle pagine sempre fresche, l’anima e il palpito dell’Italia nostra in questi mesi memorandi di ansie e di sangue, di sacrifizi e di gloria.
¹ Luigi Barzini: Al fronte (maggio-ottobre 1915) – Milano, F.lli Treves, 1915, L. 5.
² Scene della grande guerra viste da Luigi Barzini – Milano, F.lli Treves, 1915. 2 vol. L. 7.
(L’Ordine)