L’Illustrazione Italiana, 5 marzo 1916
Dal col di lana alle tofane
Tre figure di ufficiali nostri ritti su un orlo aguzzo di rupe, staccanti sullo sfondo lontano della Tofana argentea, grandiosamente sfumante fra i vapori: questa la prima delle fotografie raccolte in un albo che il loro autore – uno appunto dei tre, l’architetto prof. Piero Portaluppi – sfoglia lentamente dinanzi a noi.
L’architetto – una figura giovanile, alta, snella, dalla barba bruna, con una fisonomia seria e un po’timida che il sorriso dai denti bianchi rischiara vivacemente ogni tanto – è stato per molti mesi sulle Alpi, come tenente del genio; ne ritorna ora: e benché sposo e babbo felice ha visibilmente la nostalgia del tempo trascorso lassù. – Eravamo quasi tutti richiamati, avevamo lasciato tutti la famiglia, molti dei soldati erano meridionali, naturalmente freddolosi; ma la vita di lassù, la vita della trincea di montagna, salubre, faticosa, pericolosa; quello scavarci le vie e i rifugi nella viva roccia o nella neve, quel vivere in piccoli gruppi, lontani da ogni altro contatto umano che non fossero le granate austriache fischiami da un lato all’altro della valle, tutto ciò formava un insieme così straordinario, così diverso dalla vita solita, ricco, a parte la gioia del dovere compiuto, d’un tal fascino avventuroso…
Cosa devo dire? Si arrischiava la pelle, ma era bello, era bello.
E quella parola «bello» che ritorna spesso nel discorso del nostro interlocutore, quella parola che il Taine diceva fatta per labbra italiane, rivela come nell’architetto e nell’ufficiale valoroso si nasconda un’anima d’artista; ciò che del resto s’indovina subito anche dalle sue fotografie, alcune delle quali sembrano veri quadri, tagliate con gusto, colte in momenti caratteristici, d’una espressione e d’una forza veramente notevolissima.
Guardate il traino che procede sul fianco della montagna, trascinando i cannoni; quella sfilata di minuscole ombrettine nere, d’un nero di formiche industri, arrampicantisi faticosamente lungo la parete scabra, nevosa, erta, enorme: si può dar meglio l’impressione della lotta che si combatte dai nostri alpini gloriosi, prima che contro il nemico, contro le forze gigantesche della natura? Osservate lo squarcio violento, quasi tragico, aperto da una granata austriaca fra le brune travi d’una capanna; la fotografia è tutta nera e tetra, ma, oltre le scheggie nel loro, ride la bianchezza titanica del Col di Lana, si delineano sul cielo i profili nitidi delle Dolomiti. Una trincea coperta di neve si sporge come la carena d’una nave; un pino, dritto, par l’albero di prua; e un fremito vi assale, nell’osservare, sull’orlo della trincea, quella fila di puntini neri: le teste dei soldati, sporgenti appena, per non dar bersaglio al nemico. Poi neve, neve, dappertutto, un deserto d’argento; nell’immenso paesaggio di gelo, colto in pieno agosto, le montagne si levano, fantasmi siderei e immateriali; ma fra la neve, dando la scalata all’erta, su, su, si allineano i paletti dei reticolati; ma fra la neve un grande foro nero si spalanca, un cannone guata dall’ombra, si affisa nell’orizzonte sconfinato, quasi scegliendo il punto di mira. Così, dall’altra parte della valle, i cannoni austriaci debbono guardare «il pino eroico» come lo chiamavano gli alpini, il pino colpito già decine di volte dalle palle, con la cima mutilata, coi rami stroncati, sfrondato, scheggiato, bruciato, ma ostinatamente, indomabilmente dritto in faccia al precipizio, come un ferito che non sa paura.
Vi sono, in quest’albo, dal quale ci riserviamo di riprodurre in seguito qualche altra pagina, impressioni di pura bellezza pittorica: così la visione del Nuvolao, con la sua guglia cinta di diamanti emergente in luminosità estatica oltre allo scuro e ricco verde d’un prato, o quello della conca di Cortina in un giorno di nebbia, con gli alberi che paiono incisi in nero all’acquaforte intorno al lago di molli luminosi vapori; e vi sono curiosità d’indole guerresca, come il gruppo di soldati avvolti in un velo di fumo, dopo lo sparo di un pezzo da 149. Tutta la vita del campo di montagna si svolge dinanzi ai nostri occhi in queste fotografie. I cannoni passano attraverso al bosco, gravi e solenni, fra i pini carichi di bioccoli come alberi di Natale; si vedono le capanne di rifugio formarsi a poco a poco, simili, dapprima, nell’incrociatura delle travi, a gabbie da serraglio, poi chiuse, fatte più complete, guardate con orgoglio dai soldati che le han costruite, quasi eleganti, con le assi ben connesse, col tetto sporgente a riparo delle palle; si vedono i soldati inginocchiarsi alla messa, con un effetto di robuste spalle devotamente curvate, in fila dinanzi allo splendore abbagliante delle cime lontane; e i reticolati distendersi, sottili e neri, sullo sfondo argenteo della nevicata, come gigantesche micidiali ragnatele; e le piccole tende basse, sotto le quali non si può stare in piedi, spiegarsi in giro, delineare i loro brevi coni candidi, quasi a riscontro a quegli altri coni dai nomi di bellezza e di terrore, il Col di Lana, il monte Cervera, le Cinque Torri.
Talvolta il fotografo ha, in quest’albo, capricci di pittore di genere: come quando ci mostra una partita di Ping-Pong giocata in faccia del Nuvolao; o quando ci rappresenta la trionfale contentezza dell’ufficiale che calca sotto il piede il bel camoscio appena spirato, innocente vittima della guerra, al pari del povero ermellino ammazzato un giorno sulla neve meno bianca di lui, stupefatto che ci fosse gente capace di rincorrerlo fino a quell’altezza; o quando drizza dinanzi a noi l’aitante figura d’un soldato emergente dalle nebbie, come un Siegfried dai vapori del
Walhalla. Più spesso, ha ispirazioni di pittore-poeta, che sente la magia dell’attimo e dell’ora. Non pare un quadro d’un Lorrain moderno, questo «temporale presso la trincea», quegli strani sbattimenti d’ombre e di luci fra la nebbia intorno al piccolo viandante che procede lungo gli scavi, mentre al primo piano un albero enorme, curvo, si dibatte in faccia alla bufera, con pose di grandezza quasi manierata? E che penetrante sentimento, che infinita nostalgica tristezza nel «Ritorno del Genio dal lavoro», tutti quei soldati che ritornano verso sera, lentamente, attraverso alla foresta, fra gli alberi sfumanti nella bruma, sulla strada carica di neve, tenendo sulla spalla le zappe e i badili, come fossero. placidi contadini, come tornassero dai campi fecondi, non dal campo terribile ove solo la morte semina e miete!
– Eran così buona gente, ci volevano così bene – soggiunge l’architetto Portaluppi, continuando a sfogliar l’albo del quale è veramente peccato non poter riprodurre quasi tutte le pagine; e ci mostra gli interni delle capanne su cui, dalle fessure dei tetti, il gelo pendeva in lunghe stalattiti, sui dormenti ravvolti nei sacchi; ci mostra le buche enormi scavate nella roccia dalle granate del 305 austriaco, «er nonno» come lo chiamavano burlescamente gli alpini, per la sua grossa voce. – Non si lamentavano mai, compivano i lavori più duri, le imprese più ardite e più inverosimili con una semplicità, con una docilità…
Di nuovo un sospiro di nostalgia passa nella voce giovanile che ci narra i rifugi costruiti senz’altro materiale da costruzione che succhi riempiti di neve; che ci descrive le spedizioni notturne per andar a impiantare i telefoni da campo, l’uomo che striscia cautamente sulla neve traendosi dietro il cavo, piantandolo nelle anfrattuosità della roccia, tendendo nell’ombra il filo sul quale passeranno gli ordini, nella battaglia. Qualchevolta il filo si spezza; bisogna che l’uomo lo riannodi, lì, allo scuro, stando disteso sulla neve, per non esser visto. Ma i soldati del Genio son pratici; non si smarriscono per questo; san fare ventisette specie di nodi, con le loro rudi mani, i soldati del Genio, come tante ricamatrici.
Appunto, una delle ultime fotografie riproduce un gomitolo di fil di ferro da reticolati, gettato sulla neve; un gomitolo d’un metro di diametro. E noi pensiamo al telaio fantastico su cui, in quest’ora di lutti e di glorie, l’epopea va tracciando il suo formidabile ricamo tessuto di ferro e di sangue; e comprendiamo il sospiro di nostalgia con cui il fotografo-artista richiude l’albo in cui ha chiusa la più fiera e bella pagina della sua giovinezza.