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 1916  marzo 05 Domenica calendario

La macchina per l’assalto e la trincea automobile

Si odono rammarichi e rimpianti intorno alle forme e agli atteggiamenti assunti dalla guerra là dove essa non si limita a facile sorpresa o a semplice invasione, ma si sviluppa in tutta la sua grandezza e la sua tenacia. Sembra che la guerra ci abbia deluso, ci abbia frodato. Il pubblico è malcontento, mormora e zittisce, come quando a teatro gli viene offerta una scena noiosa e mediocre invece di quella sfarzosa e dilettevole in cui sperava.
Le persone in Europa che pensano, che scrivono e leggono libri e giornali, si aspettavano dalla guerra ciò che la folla si aspetta da uno spettacolo pirotecnico, e cioè tutta un’impetuosa e multicolore lanciata di razzi, tutto un abbagliante sfolgorìo di luce e di fuoco, tutta una serie di meravigliose e vertiginose visioni infiammate, in cui divampassero in un rogo, anticipatore di secoli, le più straordinarie e fantastiche invenzioni, scoperte, novità del genio umano. La guerra doveva, più che dar corpo a tutte le immaginazioni dei romanzieri scientifici, superarle; doveva farci passare da un imprevisto all’altro, da uno stupore all’altro, da un ritrovato inaudito ad un altro ancor più sbalorditivo. Ci eravamo apparecchiati ad assistervi con una curiosità aguzzata. La guerra doveva essere moderna in perfetta regola.
E a tutta prima parve che essa mantenesse l’impegno che aveva assunto ai nostri occhi. Ci si era messa di buona volontà. Tedeschi e Inglesi entrarono in lizza come esperti metteurs en scène. Infatti contro ai forti belgi facevano la loro apparizione i famosi mortai da 420 millimetri, e se ne preannunciavano altri più mostruosi, in attesa dei cannoni alla Verne, che dalla costa francese avrebbero bombardato l’Inghilterra. A soccorso dei Belgi gli Inglesi dovevano traghettare lungo il circolo polare, non si sa se con navi rompighiaccio o su slitte automobili, un intero esercito russo. Le milizie del dimenticato von Kluk si precipitavano sulla Francia in colonne automobilistiche che marciavano come le vetture in corsa guidate da Nazzaro e da Boillot. I corpi d’armata inglesi saltavano fuori in Francia, come soldatini intatti e lucidi, con tutti i loro fornimenti, appena cavati fuori dalla scatola, e mettevano in opera treni blindati, automitragliatrici corazzate e tutto il macchinario dei romanzi di Wells. I Francesi spargevano dai loro aeroplani nembi di frecce come arcangeli celesti. I Russi sfoderavano contro la Prussia Orientale e la Galizia le pittoresche torme dei cosacchi di Tarass Bulba. Nel mare i sottomarini cominciavano a far parlare di sé, mentre l’ammiragliato inglese si accingeva a circondare di reti metalliche gli Oceani. I colpi di scena sagacemente preparati si seguivano sempre più stupefacenti. La nostra avidità di nuovo era sempre più eccitata. Vivevamo in un brivido di ansia. Che cosa ci riserbava il domani?
Al domani la guerra è precipitata nelle trincee e nessuno la ha più tirata su. I Tedeschi hanno ancor voluto regalarci un’improvvisata coi gas asfissianti. Ma questa male odorante e opprimente trovata è stata altresì l’ultima parola della scienza e della modernità. Scienza e modernità parvero giacere soffocate sotto di essa.
Tutto l’impeto avventuroso, tutto lo slancio verso il progresso meccanico e scientifico, tutto lo sforzo vistoso parvero troncati; lungi dal rinnovarsi in nuove forme, dall’esplicarsi in nuovi congegni, la guerra immobilizzata divenuta sotterranea parve smettere gli atteggiamenti, gli armamenti e gli strumenti più recenti per ricondursi a forme e ad armi delle età trascorse, delle civiltà estinte. Il soldato scavava fossati come i legionari di Cesare e scagliava bombe e sassi a mano o con mangani come il barbaro Scita o il mercenario medioevale.
Ma la guerra sopratutto si intorpidiva, si interrava, diventava un qualcosa di antiquato, di primitivo, di improgredibile come l’arte del contadino, come l’atto di zappar la terra; diventava monotona eguale irritante per gli spettatori e più ancora per i critici.
Occorre difenderla? Forse, perché le censure e le accuse più che dagli smaniosi di novità, dai bramosi di una riforma meccanica dell’arredo militare ci pare che provengano dagli amatori del pittoresco e del romantico, dai nostalgici delle impennacchiate e cavalleresche fazioni del passato.
Coloro, e noi fra quelli, che hanno pronosticato un’intera trasformazione dei procedimenti e dei congegni della guerra, specialmente per la parte preponderante assuntavi dall’automobile, possono tutt’al più esser rimasti un po’sorpresi e turbati dal fatto che da parecchio tempo né sul nostro fronte né su quello degli alleati si intendeva più parlare di armi automobili, di automitragliatrici o di autocannoni.
Era forse il caso di pensare che queste macchine guerresche, che tante speranze avevano suscitato, passando dalle manovre sperimentali all’azione effettiva perdessero i loro requisiti? L’automobile vittorioso, trionfale in tutte le sue molteplici applicazioni civili e militari, avrebbe proprio fallito in questa prova, in questo suo connubio con le armi?
Come mai infatti dopo i primi brillanti successi l’arma automobile era caduta nel silenzio come se non fosse stata più adoperata?
Per la stessa ragione per cui un uomo privo di gambe o rinchiuso a vivere entro una cantina non si vale più della bicicletta e lascia che arrugginisca abbandonata in un angolo. A che potevano servire le artiglierie automobili marcianti anche a 70 chilometri all’ora, quando la guerra si è sprofondata nelle catacombe, quando gli eserciti avversari durante mesi e mesi non si spostano di un metro? D’altra parte per le speciali condizioni in cui si trova il terreno quando la guerra può risuscitare dal suo letargo, occorre in questa nuova arma meccanica terrestre una qualità che non possedeva fino a ieri, una facoltà che già si accenna su altri veicoli automobili militari e agricoli, come le macchine trattrici e i carri trattori, e consiste nella possibilità di avanzare su ogni terreno e in ogni condizione.
Da mesi e mesi in Italia, in Francia, in Russia, dove la guerra si fa sul serio, i combattimenti si seguono e si ripetono quasi identici su uno stesso schema, come se avvenissero in eguali circostanze e nella stessa località. Dopo una prolungata e violentissima attività delle artiglierie grosse e normali contro le posizioni avversarie, le truppe escono dai loro ripari, dove stavano appiattate, e si avventano contro i reticolati abbattuti, contro le trincee sommosse, scoverchiate, sconvolte dai proiettili. Non ostante questa preparazione distruttrice dell’artiglieria, diretta a infrangere la resistenza nemica, è ben raro che gli assalitori giungano in forze alle trincee battute ed è ancor più raro che possano occupare qualche cosa di più della prima linea, delle posizioni avanzate. Sovente poi l’occupazione non si può mantenere, perché non si ha il tempo di riedificare, voltata dalla parte opposta, una trincea valida a sostenere il contrattacco.
Occorrerebbe che l’avanzata, anziché da truppe scoperte, fosse effettuata da una specie di trincea mobile che riparasse gli assalitori e che poi non appena occupata la linea avversaria, questa fosse posta in istato di resistentissima difesa, diventasse una trincea intatta, e che le artiglierie, come prima sostenevano la trincea da cui è partito l’assalto, potessero immediatamente accorrere e stabilirsi a sostegno della posizione occupata. Ma agli eserciti manca per adesso questa trincea mobile, questo vasto scudo collettivo ambulante, e difetta in gran parte all’artiglieria attuale la possibilità di avanzare subito sul terreno sconquassato e battuto al seguito delle truppe.
Orbene, questa generale condizione di manchevolezza non rivela evidente la necessità di un nuovo mezzo, di un nuovo organo, di un nuovo strumento di guerra?
Manca ai moderni eserciti qualche cosa di essenziale, per cui sono afflitti da una fatale impotenza, l’impotenza ad offendere ad attaccare senza cadere in uno stato di inferiorità. Questo è già stato avvertito, ma non se ne è suggerito il rimedio.
Crediamo di poterlo indicare noi. Il mezzo per colmare la lacuna, per mettere alla pari l’offesa e la difesa sta nell’artiglieria automobile perfezionata e ultrapotente. Come la trincea munita, con tutto il suo corredo di insidie è il nuovo sistema di arresto e di difesa, così l’artiglieria automobile è il nuovo sistema di offesa, è il nuovo organo che deve servire per l’avanzata e per l’attacco.
Ecco il baluardo mobile, ecco la nuova testuggine sotto la cui protezione le fanterie potranno inoltrarsi, ma ecco qualcosa di più, una testuggine che protegge ed offende, ecco in una parola la fortezza che cammina.
Supponiamo che le artiglierie automobili siano già quali noi le concepiamo, un’arma animata e concorde come il sottomarino e una macchina atta a procedere su ogni terreno. Raffiguriamole di vari tipi, o più piccole e leggere per incursioni e scorrerie, o più forti e pesanti per azioni più vaste e poderose, armate non già di una o due mitragliatrici, di uno o due cannoncini, ma di dieci, di venti bocche da fuoco, anche di grosso calibro, e forse non più di cannoni ma di qualche nuovo congegno di lancio più rapido e continuativo.
Immaginiamo queste dreadnoughts terrestri riunite a schiere di centinaia, da prima dietro la linea di attacco, a rincalzo di essa, come le attuali artiglierie, e poi al momento in cui l’assalto dovrebbe sferrarsi, scagliate avanti, prorompenti magari da passaggi sotterranei.
Eccole protette dalle loro salde corazze a pochi metri dalle rovesciate e scompaginate trincee nemiche, formare una robusta diga di acciaio, non muto bersaglio ai colpi avversari ma vomitanti torrenti e nembi di ferro e di esplosivi. Avanzano ancora, si inoltrano su buche e avvallamenti, si inerpicano su scarpate, coi loro vomeri e sproni si aprono passaggi nei terrapieni, spartono solchi per meglio proteggersi, frantumano muri di cemento e macigni. Sull’occupata trincea nemica formano già automaticamente la nuova trincea metallica, presidiata dalle sue artiglierie e scudo alle fanterie.
Poiché l’uomo, dati gli odierni mezzi di difesa non può più farsi assalitore, ecco a sostituirlo il gigantesco automa ferrato, il mastodontico guerriero dall’anima di fuoco. La funzione dell’assalto divenuta troppo pericolosa, la protezione della corazza divenuta troppo greve per le deboli forze umane, passa dall’uomo al colosso meccanico corazzato e fulminante.
Poiché la fortezza stabile, impiantata nel terreno, la fortezza in muratura ha fatto il suo tempo e più non giova, ecco in sua vece la fortezza automobile.
L’uomo incomincia a operare in grande. Anziché alle origini del mondo, e come un ciclo ormai tramontato, l’êra dei Titani si apre adesso.
I nostri ingegneri, i nostri metallurgici capaci di fondere cannoni che portano a più di 30 chilometri, di edificare navi d’acciaio immense come isole galleggianti, saranno e forse sono già in grado di forgiare, di comporre, di imbullonare queste fantastiche costruzioni meccaniche, queste torri e cittadelle semoventi, questi vascelli terrestri bombardanti, questi cassoni corazzati, questi novelli cavalli di Troia per i moderni Ulissidi che riacquisteranno così la facoltà di assalire, di forzare la difesa trogloditica ripristinata dagli eserciti teutonici.
Non vi è da disperare adunque né della guerra, né del suo progresso tecnico, né dell’automobile che lo compendia per tanta parte, poiché è proprio desso chiamato a fornire per il più formidabile problema della guerra moderna, la sola soluzione esatta e valevole, quella che darà la vittoria.