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 1916  marzo 05 Domenica calendario

Corriere

L’ansia per Verdun. –  L’affare dei colonnelli svizzeri. –  D’Annunzio offeso ad un occhio. – Ferruccio Benini
Verdun!... Ecco il nome che da dieci giorni è ripetuto ansiosamente di bocca in bocca in tutto il mondo. Cosa succede attorno a Verdun?... Come va la grande, la inattesa, improvvisa, imponente battaglia attorno a Verdun?... E si cercano ansiosamente i bollettini, del mattino, del pomeriggio, della sera; si aspettano con inquietudine le notizie, d’ora in ora, come se la grande battaglia debba, possa essere la battaglia decisiva, dalla quale verrà la liberazione della Francia, e, finalmente, l’epilogo della gran guerra!...
Questa languiva, affaticante, estenuante, sul lungo fronte belga-francese – languiva da dieciotto mesi, con alternative inconcludenti di piccole parziali avanzate, di parziali temporanei regressi, fra aspri duelli di artiglierie ed incursioni di aereoplani; essa languiva, mentre notizie ottimiste dipingevano il nemico tenace – il tedesco – a corto di risorse, con notevole diminuzione di uomini, quasi esausto di munizioni e l’imperatore stretto alla gola dal cancro; languiva, quasi in attesa dell’opera logoratrice del destino, il grande, supremo, misterioso vendicatore!...
Ma ecco, d’un tratto, dieci giorni sono, tuona violentemente, terribilmente, irrefrenabilmente il cannone – tutt’attorno a Verdun – il grandioso, formidabile campo trincerato di Verdun; tuona instancabile il cannone nel labirinto di forti – Douaumont, Damloup, Vacherauville, Vaux, Fleury – tutta la rosa di fortificazioni che formano corona a Verdun, la fortezza delle fortezze, la porta di ferro per la quale i tedeschi sapevano fin da prima della guerra, che mai sarebbero passati, ed appunto per questo calpestarono senza misericordia il Belgio impreparato, il Belgio fidente ed eroico.
È dunque venuto in mente, ai tedeschi, di poter passare, ora, dopo dieciotto mesi di una lotta che li deve pur avere diminuiti notevolmente di effettivi e di mezzi di attacco?...
Ma che cosa hanno dunque addosso, quei maledetti tedeschi, per poter lanciarsi a falangi, sopra falangi – come davanti a Liegi ed a Namur dieciotto mesi sono – a farsi decimare a migliaia, a diecine e centinaia di migliaia, dai cannoni francesi, in quel ginepraio di fortificazioni, che fin qui eransi quasi studiati di evitare?!...
La tattica tedesca è sempre la medesima: lunghe attese e sforzi imponenti improvvisi; le attese a cercare, studiare, dovunque, un punto debole; gli assalti improvvisi, imponenti, per riuscire a forzare nel punto debole, fare, comunque, un’avanzata, portarsi un po’più avanti, piantarsi.
Questo hanno tentato di fare in questi giorni verso Verdun, portando specialmente il maggior impeto dei loro attacchi imponenti, contro Douaumont. Questa località, col forte che la caratterizza, non fa propriamente parte della cerchia di forti moderni attornianti Verdun, ma ha una posizione dominante su tutta la regione verso la Francia, insieme con tutto il ciglione, che si estende per tre o quattro chilometri a levante ed a ponente del fronte.
Su quel ciglione, e attorno a Douaumont, e dentro Douaumont si è svolta – nella sua giornata culminante – il 26 febbraio – l’epica lotta, nelle fasi della quale i tedeschi, rovesciando una tempesta di colossali proiettili sui francesi e tutto sconvolgendo, polverizzando, riuscirono a prendere il forte. Gli eroici difensori ebbero, pel momento, un ripiegamento inevitabile; ma l’ordine del loro generale era categorico: «bisogna resistere ad ogni costo!» – e la resistenza francese, resistenza dei cannoni, resistenza delle baionette, fu degna, irruente, formidabile, ed il forte fu ritolto, almeno parzialmente, al nemico – stretto ora da tre lati, inchiodato in quel forte e su quel ciglione, che – malgrado il sacrificio, si calcola, di cinquantamila uomini – non ha potuto né completamente afferrare, né durevolmente tenere!...
Il furore teutonico ha fallito contro il muro di bronzo oppostogli dal valore e dalla prontezza dei francesi. I tedeschi, se miravano a Verdun, oramai devono avervi rinunziato. Se miravano più oltre, tanto peggio. Se fossero riusciti a spezzare il fronte francese, e si fossero avventurati ancora nella guerra di movimento, si sarebbero esposti, in aperta campagna, a lottare col mirabile valore francese, avrebbero ritrovati ancora i vincitori della Marna, e un’ora decisiva per la loro audacia sarebbe certamente suonata!
Mentre scrivo, la lotta è attenuata, ma non decisa: i francesi soffocheranno nel forte di Douaumont i brandeburghesi penetrativi nel pomeriggio di venerdì, ed esaltati nei telegrammi del Kaiser? Il forte rimarrà ancora in mano ai tedeschi?... I lettori lo sapranno quando questo Corriere sarà già stampato. Comunque, la lotta gigantesca degli ultimi otto giorni di febbraio, ha dimostrato che se i tedeschi, dopo dieciotto mesi di guerra, sono ancora capaci, attraverso spaventevoli ecatombi, di ripetere la secolare strategia di Tamerlano e di Attila, i francesi sono oramai mirabilmente organizzati per opporre una resistenza che non teme violenze e sa sviluppare, malgrado la irruenza degli assalti nemici, manovre mirabili per genialità e per eroica felicità di risultati.

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Il popolo svizzero era da tre mesi agitato da insolita inquietudine. Lo turbava «l’affare dei colonnelli»: francesi, tedeschi, italiani, appassionavansi, amareggiavansi, gli uni contro gli altri per questo «affare» che si può riassumere così: l’alto comando svizzero, tenuto dal generale Wille – beneviso, dicono, al Kaiser – attorniato da colonnelli di sangue tedesco – era, anzi, è, notoriamente, germanofilo. In tale ambiente, le simpatie per la Germania andavano cercando applicazioni pratiche. Mentre la Svizzera è aperta a tutte le complottazioni internazionali – diplomatiche, socialiste indifferentemente, – e preferibilmente teutoniche – vi erano nell’alto ambiente militare elvetico ufficiali superiori che cercavano di aiutare in qualche modo la Germania. Il sangue non è acqua!...
Così, sotto la pressione di una parte dell’opinione pubblica, il governo federale dovette decidersi ad un’inchiesta, dalla quale parve emergere che due colonnelli – Egli e von Wattenwyl – facevano un lavorìo di informazioni, che si risolveva a danno della Francia e della Russia ed a favore della Germania.
Da qui un processo, pel quale i popoli elvetici hanno messo a non lieve repentaglio la loro calma pastorale; ed il processo, davanti alle Assise di Zurigo – che da quando è scoppiata la guerra è un vero «porto di mare» – ha avuto ieri, martedì, il suo epilogo in una sentenza assolutoria – in questo senso, che l’accusa concreta di «spionaggio» contro i due colonnelli non ha fondamento. Tutto lo stato maggiore elvetico-teutonico è accorso per salvarli, ma che i due colonnelli se l’intendessero anche troppo con determinati attachés militari è risultato ben chiaramente. Essi sono stati assolti, penalmente; e il pubblico ha applaudito. Forse a Ginevra od a Losanna avrebbe, per lo meno, zittito!... Ora i due colonnelli dovranno purgarsi «disciplinarmente». Ma la cosa, oramai, rimane in famiglia. Tutto sta a vedere quali effetti produrrà nella famiglia federale elvetica la rivelazione, nei resoconti del processo, di tutti i dietro scena, onde militari svizzeri di sangue francese apparvero in contrasto con svizzeri di sangue tedesco, e viceversa!... La confederazione ha celebrato l’anno scorso a Ginevra il centenario della sua integrazione; ma le voci dei sangui, nell’urto della gran guerra, si sono fatte sentire!...
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In quest’ora più intensamente tragica, nella quale il fragore dei cannoni e delle bombe sopraffa ogni altra voce, diventano nulla le dispute, le querimonie dei piccoli uomini, dei miseri partiti che, oggi, cercheranno il loro sfogo nell’emiciclo di Montecitorio!
Quanta piccineria, in confronto dell’imponente tragedia mondiale, che si ridipinge in questi giorni degli accesi colori e dei bagliori foschi che la caratterizzarono nell’ansioso agosto del 1914!...
Cosa può mai valere in quest’ora una qualsiasi discussione parlamentare?!...
Il pubblico ha a ben altro la mente ed il cuore!...
Vanno da ogni parte gli auguri al poeta dell’italianità combattente. Atterrando il velivolo sul quale il poeta, ufficiale aviatore, aveva compiuta una missione affidatagli, la macchina ha avuto un urto violento, ed un traverso ha colpito fortemente Gabriele d’Annunzio all’occhio destro producendogli il distacco di retina superiore esteso. Dolore, e pericolo. Pericolo, perché se la retina, quella delicatissima membrana, non si riattacca, e si ostina a rimanersene indietro increspata ad ombrello semi-chiuso, il poeta della bellezza può perdere la facoltà visiva dall’occhio percosso. Auguri volgonsi a lui da ogni parte perché ciò non sia. I curanti gli raccomandano riposo e quiete – due rassegnazioni inconciliabili con l’anima del poeta, che vuol veder gente, e leggere ciò che gli scrivono e rispondere. L’eroe attuale della guerra aerea, il capitano Oreste Salomone, gli ha telegrafati, dall’ospedaletto dove giace, gli auguri più fervidi; e il poeta gli ha risposto: «Per grazia della sorte ho potuto recare in questo mio triste letto la visione del tuo volto trasfigurato. La più bella e l’ultima. Ora la tua parola fraterna mi rinnova la commozione e mi dà l’ansia di guarire per ritrovarti. Riprendi anche tu le tue forze per le prossime prove. Arrivederci. Viva l’Italia!...» E da quella Francia, dove D’Annunzio si temprò alla crociata latina, che culminò il maggio dell’anno scorso, nelle orazioni di Quarto e di Roma – dalla Francia, Maurizio Barrès gli ha rivolti questi auguri inspirati:
«I vostri amici francesi sono inquieti. Diteci che i vostri due occhi al servizio del vostro genio continueranno ad attingere immagini nella bellezza del mondo. La barbarie sarebbe troppo lieta di aver distrutto uno sguardo che foggia i capolavori. Vi abbraccio, caro e glorioso amico, soldato di Cadorna. Qui viviamo nell’angoscia della battaglia di Verdun, ma l’irruenza tedesca non riuscirà a spezzare il fronte dei nostri mirabili soldati. Più che mai abbiamo la certezza del completo trionfo finale della civiltà. Viva l’Italia!».
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Nell’ora in cui il gran teatro della guerra distrae da ogni altro teatro l’attenzione e la passione del pubblico, i lutti si addensano sulle scene italiane improvvisi e crudeli!... Sono spariti rapidamente, uno dietro l’altro, Calabresi, Andò, Giovannini, Pantalena, Bonafini – ieri notte è scomparso improvvisamente, a Roma, Ferruccio Benini!... Tornava dal teatro, aveva cenato, rideva; e un colpo di tosse, uno sbocco di sangue lo ha ucciso!... Così è sparito, per sempre, con un semplice gesto, che aveva insieme del tragico e del comico, uno dei più commoventi, dei più semplici e veri animatori del teatro veneto, che è poi la fonte perenne del vero teatro italiano.
Di dove era Ferruccio Benini? Veneto? Bolognese?... Genovese?... Era figlio d’arte, emiliano di sangue, genovese di stato civile; veneziano per battesimo artistico. A Venezia debuttò, nel 1866, al San Benedetto, nel Medico condotto di Riccardo Castelvecchio. Alla domanda del precettore: «Quale è la capitale d’Italia?» – rispose con la battuta a soggetto, che suscitò il delirio del pubblico: «La capitale d’Italia... deve essere Roma!...».
Uscì dal teatro italiano di prosa perché nel teatro dialettale, nel teatro veneto egli poteva saziare più largamente i suoi istinti di semplice verità; e Giacinto Gallina educò, nutrì, stimolò e disciplinò quegli istinti. Le migliori commedie di Giacinto Gallina furono pensate, scritte per Ferruccio Benini, che ricambiò l’amico e maestro creandogli dal vero i personaggi. Così tutti i pubblici d’Italia poterono vivere, ridere, piangere con Momolo, Anzolo, Beneto, Micel, il nobilomo Vidal; così egli divenne l’interprete maggiore, insuperabile nelle Barufe in famegia, nel Moroso de la nona,in Mia fia, Zente refada, Fora dal mondo, Serenissima, La famegia del santolo, La base de tuto;e nei Recini da festa di Selvatico, nel Ludro di Bon, nella Vedova e nel Congedo di Simoni, nella farsa Maridemo la suocera, che aveva appena finito di recitare, quando spirò!...
È tutto un mondo di care figure, di amici desiderati e cercati, di intimi nostri rallegratori e consolatori che scompare con lui. Egli li aveva creati col suo ingegno, con la sua bontà, con la sua schietta semplicità ritemprata incessantemente nella vita alternata, intima e confidenziale della famiglia e dell’arte; egli era salito alla celebrità, alla vera fama, alla gloria, rimanendo sempre il semplice e buono dal pubblico italiano tanto amato, perché così conosciuto e compreso.
Egli era l’interprete più genuino della collettiva giocondità e della collettiva malinconia. Oggi, nel suo nome, si riassume per gl’italiani un collettivo, sincero dolore!
1° marzo