la Repubblica, 23 agosto 2016
Leggere Marco Polo per capire i nuovi dannati della Terra
Guardo in faccia sullo schermo del portatile il bambino di Kirkuk, in Iraq, pronto a saltare in aria, come forse ha fatto quello di Gaziantep, in Turchia: mentre gli artificieri gli slacciano la cintura esplosiva nascosta sotto la maglia di Lionel Messi, sembra terrorizzato, quasi avesse finalmente compreso l’inganno nel quale è caduto. Quando le guardie lo portano via, si lascia sfuggire un lamento universale, una richiesta di aiuto, un’imprecazione, che tutti i genitori del mondo potrebbero riconoscere nei loro figli di quella stessa età. Lo guardo in faccia e ripenso a una lezione che tenni una volta alla Città dei Ragazzi di Roma: stavo spiegando il Milione di Marco Polo ad alcuni adolescenti afgani, appena sfuggiti alla violenza talebana. Era il brano del Veglio della Montagna: la storia di un signore che induceva all’assassinio i suoi giovani prigionieri. Alì e Hafiz, con espressione assorta, mi chiesero: “Perché il Veglio rapiva i ragazzi?” E io dissi: “Voleva manovrarli come armi. Per questo gli prometteva il paradiso”.
I miei scolari, che per arrivare in Italia avevano compiuto lo stesso viaggio del mercante veneziano, sebbene all’incontrario, assentirono con il capo, alla maniera di vecchi saggi. Quei giovani avventurieri sarebbero diventati adulti senza mai dimenticare la storia che gli avevo raccontato, tanto gli apparteneva. Era la stessa vicenda vissuta da Khaliq, scappato dalla Sierra Leone a sette anni per non diventare un bambino-soldato. Oppure da Obi, atterrato all’aeroporto di Malpensa direttamente da Lagos, in Nigeria, nascosto nella stiva di un Boeing. Se non l’avesse fatto, mi confidò una volta, sarebbe stato inquadrato nelle file dei guerrieri stupratori di Boko Haram.
A quel tempo avevo l’impressione che Marco Polo potesse aiutarmi a capire i nuovi dannati della Terra, così come, tanti anni prima, aveva fatto Edmondo De Amicis con gli emigranti italiani nel racconto Dagli Appennini alle Ande compreso in Cuore, narrando le traversie del piccolo Marco che s’imbarca a Genova per raggiungere la madre inferma in Argentina. Poi mi sono reso conto che quelle pagine, antiche e moderne, mi spingevano ad agire. È la ragione per cui, nel mio piccolo, ho intensificato l’azione di insegnamento della nostra lingua agli immigrati. Spesso i volontari che s’impegnano in tale azione di pura gratuità nei confronti dei minorenni non accompagnati si sentono chiedere: “Perché le famiglie di così tanti ragazzini lasciano partire i loro figli da soli, con il rischio che affoghino nel mar Mediterraneo e si perdano nei meandri delle jungle urbane, senza sapere come vivranno e chi gli darà da mangiare? Io non l’avrei mai fatto”. Fino alla battuta più classica che a stento viene trattenuta: “Non sarebbe meglio che li aiutassimo a casa loro?”
La foto del bambino con la maglia del Barcellona, smarrito e pericoloso, disorientato e tradito, bomba vivente appena disinnescata, è l’unica, possibile, credibile risposta a queste comprensibili perplessità. Se fossimo stati noi sua madre o suo padre, non l’avremmo spinto a partire nel tentativo estremo di sottrarlo a quel destino tragico? Non avremmo cercato in tutti i modi, a costo di metterlo a repentaglio, di salvarlo dalla certezza del reclutamento forzato, dall’indottrinamento selvaggio, dalla barbarie assoluta? Ecco perché il grido del bambino che sentiamo nel finale del video, nel momento in cui i militari forse lo sottraggono a un probabile linciaggio, ci riguarda: quelle urla disperate raccontano lo sfregio al principio di umanità che è stato consumato. E giungono senza soluzione di continuità dalle regioni mediorientali fino al cuore di tenebra della nostra vecchia Europa.