Corriere della Sera, 23 agosto 2016
Il parlamento di Tobruk ha sfiduciato Serraj, l’uomo che doveva portare una ventata di stabilità in una Libia in guerra
Dopo otto mesi di silenzio, il Parlamento di Tobruk si è riunito ieri per votare una mozione di sfiducia mirata sostanzialmente a delegittimare il premier Fayez al Serraj e il suo gabinetto di «Accordo Nazionale». Un colpo duro per Serraj, l’uomo scelto delle Nazioni Unite, con l’Italia in testa, che avrebbe dovuto lavorare per l’unità nazionale e portare finalmente una ventata di stabilità in questa Libia divisa da milizie in guerra, lotte tribali e ingerenze straniere destinate ad aumentare i contrasti interni. Serraj stesso si trova al momento a Tunisi assieme ad alcuni dei suoi 17 ministri, formalmente per incontri di routine, ma in realtà per motivi di sicurezza personale acuiti adesso dalla nuova crisi politica.
Conseguenza immediata è che si consolida la figura del generale Khalifa Haftar, ministro della Difesa a Tobruk, uomo forte della Cirenaica sostenuto apertamente dall’Egitto del presidente Al Sisi. Non a caso ieri dal Cairo è giunta subito una calda dichiarazione di plauso alla mossa del Parlamento.
Il voto di Tobruk era atteso da mesi. «Mi auguro che si riuniscano e approvino il mio governo e il nostro lavoro il prima possibile. So di godere della loro maggioranza. Ma nel frattempo non posso restare con le mani in mano, il Paese va a rotoli», ci aveva dichiarato ottimista in una lunga intervista lo stesso Serraj nel suo ufficio a Tripoli due settimane fa. Il risultato, però, è per lui una doccia fredda.
Ieri si sono riuniti 102 dei 182 parlamentari. «La nostra costituzione attesta che il quorum minimo affinché un voto sia legale è 98. Almeno 61 si sono espressi contro Serraj e 39 si sono astenuti. Ora lui verrà destituito. A noi restano due strade: scegliamo un nuovo premier che a sua volta designerà il suo gabinetto, oppure eleggiamo un premier e due vice che in accordo col Parlamento troveranno una nuova formula di governo», ci ha detto per telefono da Bengasi il deputato Keralla Turkawy.
A parere di Hassan Mihanna, a sua volta deputato di Bengasi, la comunità internazionale e in particolare l’Italia avrebbero dovuto ascoltare con maggiore attenzione le voci di crescente malcontento. «La Libia è in mano alle milizie. Trionfa la logica brutale. Abbiamo bisogno di un leader molto più carismatico che non Serraj. Sotto di lui a Tripoli sta tornando il caos. Voleva porsi al di sopra delle milizie, ma in realtà le sfrutta nella falsa speranza di poter controllare gruppi di potere e forze armate che gli sono sfuggiti di mano», spiega.
Si apre un futuro incerto. I centri urbani sulla costa della Tripolitania sono letteralmente invasi di migranti disperati e pronti a tutto pur di imbarcarsi sui navigli dei trafficanti di esseri umani verso l’Italia. Impera la desolante realtà di tribù e città-Stato per lo più in lotta tra loro. Quella di Misurata sta raccogliendo i risultati della guerra contro Isis sempre più accerchiato nella sua roccaforte di Sirte, anche grazie all’aiuto militare fornito dagli Stati Uniti, che dai primi di agosto bombardano la città con raid accurati.
Ieri è stato liberato il quartiere dove si trova una delle prigioni di Isis. Ma va anche aggiunto che la grande maggioranza dei militanti più fanatici è da tempo riuscita a fuggire dalla sacca. Per stessa ammissione dei portavoce di Misurata, a Sirte sono ora circondati un largo numero di ex sostenitori di Gheddafi. «I capi li conosciamo. Vecchi militari del regime del Colonnello come Al Karami, Al Zarguni e Al Juhani, che ci avevano combattuto durante la rivoluzione del 2011», dice il colonnello Mohammad al Ghasri.
In questa luce, anche l’assedio di Sirte non piace ai politici di Tobruk. Spiegano: «Serraj lo strumentalizza per guadagnare punti di fronte agli occidentali. Ma dimentica che è proprio a Bengasi e Derna che si combatte con più determinazione contro Isis».