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 2016  agosto 21 Domenica calendario

La Gioconda è uno spettacolo anche vista da dietro


Uno tra i più autorevoli storici dell’arte italiani del Novecento, Pietro Toesca, invitava i suoi allievi a guardare dietro le immagini. Per attribuire un dipinto a un determinato pittore o a un determinato anno, affermava, bisogna soffermarsi sui telai. Spesso proprio in quelle elementari architetture fatte di legno e di chiodi si celano – idiomi difficili da decifrare – trucchi, enigmi. Le imbastiture su cui poi l’artista ha tessuto il proprio abito iconografico; le cicatrici delle diverse fasi di restauro subite dai quadri; i «bollini» lasciati dai musei dove quei quadri sono stati esposti. Insomma, la biografia misteriosa delle opere è lì: in ciò che è inibito ai nostri occhi.
A queste tematiche è dedicato Verso, l’ambizioso progetto di Vik Muniz, presentato al Mauritshuis Museum de l’Aia (fino al 4 settembre). È un’avventura cominciata quindici anni fa. L’artista brasiliano si è recato in importanti musei del mondo – il Louvre, il Moma, il Mauritshuis – alla ricerca di alcuni capisaldi del canone pittorico occidentale: la Gioconda di Leonardo, la Notte stellata di van Gogh, Les demoiselles d’Avignon di Picasso, Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer, Il cardellino di Fabritius, La lezione di anatomia del dottor Nicolaes Tulp di Rembrandt. Di quei capolavori, però, lo interessava non il «recto» ma proprio il «verso». Non la parte davanti, ma quella dietro. Non la composizione, né la sapienza stilistica. Non i significati simbolici, né i rinvii storici. Ma il side B. Destinato a rimanere ignoto a tutti noi quando passeggiamo tra le sale di un museo, quel «luogo» custodisce l’anima di ogni quadro.
Divenuto celebre per il film Lixo extraordinário e per le fotografie della spazzatura delle favelas, Muniz, nel ciclo Verso, si è mosso su diversi piani, saldando una strategia di matrice duchampiana con una d’impronta dechirichiana. Da un lato, si è limitato a scegliere alcune opere già fatte. Dall’altro lato, ha concepito i suoi interventi come inattese ipotesi di riscrittura. In tal modo ha fatto riaffiorare quell’attitudine critico-analitica che da sempre caratterizza la sua poetica. Tra le personalità più radicali dello sperimentalismo postmodernista, Muniz da anni frequenta i dipinti del passato, che reinterpreta da iconoclasta pop, portandosi al di là di ogni anacronismo: ad esempio, ha ri-dipinto «classici» di Leonardo, Botticelli, Caravaggio, Goya e David, servendosi di spaghetti, cioccolata, marmellata, burro di arachidi. Questa sensibilità storico-artistica ritorna nella nuova serie. Ispirandosi a Malraux, Muniz allestisce ora una sorta di museo immaginario. Per farlo, imbocca un sentiero inesplorato. Sceglie di studiare non i «testi», ma i «sottotesti». Presenze segrete, eppure necessarie. Fondamenta che sorreggono ogni edificio pittorico: nascoste, ma decisive. Non la «sovrastruttura», ma la «struttura» delle opere. Non il visibile, ma l’invisibile delle immagini. Non le superfici di tessuti sontuosamente dipinti, ma le cuciture ad essi sottese. Non il palazzo finito, ma l’impalcatura che lo sostiene.
Le tappe di questo viaggio. Non senza difficoltà, Muniz ha ottenuto dai direttori del Louvre, del Moma e del Mauritshuis la possibilità di spiare cosa ci fosse dietro la Gioconda, la Notte stellata, Les demoiselles d’Avignon, Ragazza con l’orecchino di perla, Il cardellino, La lezione di anatomia del dottor Nicolaes Tulp. Accompagnato dai conservatori dei musei, avvalendosi di un team di tecnici, ha scattato fotografie in alta risoluzione. Questi documenti gli hanno consentito di analizzare con cura maniacale l’altra faccia di quei quadri. Che, poi, è stata ricreata con esattezza filologica da uno staff di artigiani, i quali hanno utilizzato materiali vicini a quelli usati per gli originali, replicando anche le annotazioni riportate sul «retro» delle tele. Sequenze di ripetizioni differenti. L’esito finale: opere inedite, dense di assonanze con i lavori del gruppo Support/Surfaces e di Paolini, che però tendono a «mimare» fedelmente le fonti cui si richiamano. Un ossessivo divertissement, il cui senso è sottilmente «politico». Nel recuperare le riflessioni affidate a ricettari ormai classici (come il Libro dell’arte di Cennino Cennini) – dove si definiscono le norme per preparare tele, colori e pennelli – Muniz sembra implicitamente polemizzare con quanti si situano nella linea di una concezione idealistica dell’arte, lontani eredi di Poussin che, quando gli veniva chiesto di svelare l’origine dei suoi dipinti, portava l’indice verso le tempie, come per dire: l’arte è un atto mentale. Muniz, invece, sostiene una prospettiva estetica di tipo materialistico. Un’opera – sembra dire – non è solo l’esito di un’intuizione o di una trovata. Inoltre, non si dà mai solo come grammatica di «occasioni velate» che la critica deve svelare attraverso una «ricerca poligenetica» (per dirla con Longhi). Va considerata, al contrario, come aveva affermato de Chirico, nella sua componente «materiale e operaia», non nei suoi aspetti «enigmatici e conturbanti»: come esperienza che richiede perizia artigianale e tempi lunghi.
Prima che drammaturgia di figure e di colori, un quadro è un supporto costruito con materie povere come legno e chiodi. Va pensato non come trascrizione di un motto di spirito, ma come un processo che si svolge con pazienza quotidianamente. Un prezioso gioiello di orologeria: all’apparenza semplicissimo, frutto invece di ore di fatica. Questo ingranaggio non può mai trascendere la concretezza della «cose» di cui è fatto: si consegna come spazio fisico, dotato di una precisa consistenza, ma meravigliosamente fragile.
Ogni artista autentico non può essere solo un creatore libero. Egli – ci dice ancora Muniz con Verso – è innanzitutto un artifex. Servo sublime, dedito a una cerimonia di gesti controllati, deve agire con impegno e serietà; sottrarsi agli slanci dell’istinto; sottoporre l’anarchia espressiva a una severa disciplina; avere consapevolezza degli strumenti di cui si serve; attribuire un’assoluta centralità alla manualità. Dunque, animato dall’orgoglio della modestia, deve scegliere tele, preparare telai, selezionare pennelli, macinare colori, predisporre imprimiture. Aveva scritto de Chirico: «La preparazione delle tele, delle tavole, dei cartoni (…) dopo qualche mese di pratica diventano occupazioni piacevoli e divertenti e si è sempre tentati di cercare nuove combinazioni (…) alla ricerca di risultati sempre migliori».