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 2016  agosto 21 Domenica calendario

Una sera con Bukowsky a parlare di corse di cavalli, di vitamine, della morte e di “Panino al prosciutto”. Silvia Bizio ha ritrovato una videocassetta dell’81 con un’intervista a uno dei più grandi scrittori, quello che non voleva salvare il mondo (tantomeno le balene)

 “Umanità, non lo sei mai stata”. Sono le parole che chiudono una famosa poesia di Charles Bukowski, e sono anche quelle che hanno ispirato un breve documentario basato su un’intervista che feci allo scrittore e poeta americano nel gennaio del 1981 e che ora sarà presentato fuori concorso per le Giornate degli autori al Festival di Venezia.
You Never Had It – An evening with Charles Bukowski si intitola, ed è un documentario che mi ha ovviamente riportato indietro negli anni, quando ero agli inizi della mia carriera di giornalista a Los Angeles e avevo da poco finito il mio dottorato di ricerca alla Ucla. La mia passione erano gli scrittori della Beat generation: Jack Kerouac, Allen Ginsberg, John Fante e l’allora famosissimo Charles Bukowski. Avevo spedito una lettera presso la sua casa editrice, la Black Sparrow Press, e dopo qualche tempo ricevetti una sua risposta, col disegnino dell’omino che fuma con la bottiglia a terra con cui sempre accompagnava la sua firma. Ci mettemmo d’accordo per un’intervista e diventò la prima di tante, dando il via a un’amicizia durata anni, fino a quando la nascita di mio figlio Matteo, giusto trent’anni fa, pose fine alle inevitabili notti di vino e di fumo (di solito le Bidi, quelle indiane) cui la presenza di Bukowski costringeva.
In realtà a lui ero arrivata già due anni prima grazie a una mia grande amica a cui il documentario è dedicato: Fernanda Pivano. Fu lei, nel ’79, a chiedermi di accompagnarla nella casa di San Pedro dove Bukowski abitava. Mi impressionò il modo in cui lui la ricevette quel pomeriggio: sulla porta di casa le baciò la mano da vero gentiluomo, poi con la sua futura moglie Linda Lee Beighle ci fece accomodare in salotto, servendo tè e chiacchierando amabilmente di letteratura, del suo stato di salute, della vita a San Pedro.
Hank, così lo chiamavano gli amici, viveva con Linda Lee in una casa su due piani con vista sul porto, con un grande giardino e in una stradina tranquilla. Una casa bohémienne, con un grande e comodo divano, tante poltrone, un ampio tavolino da caffè sempre pieno di portaceneri stracolmi, bottiglie di vino, caramelle. Gli scaffali, invece, erano pieni di libri, soprattutto quelli scritti da Bukowski, tutte le edizioni straniere in cui era stato pubblicato, e dappertutto i suoi disegni realizzati per ogni libro che scriveva. La cucina, grande, dava sul salotto e la camera da pranzo era piena di piante, felci soprattutto, appese ovunque. E poi gatti, tanti gatti che giravano tranquillamente dentro e fuori l’appartamento.
Linda Lee, che all’epoca aveva un negozio di sandwich biologici (iniziava la moda dell’organic e del cibo salutare e il negozio si chiamava il Dew Drop Inn, a Redondo Beach) vive ancora in quella casa, sempre circondata di gatti, forse i figli dei figli dei gatti che Bukowski aveva amato tanto. Di tanto in tanto va a visitarlo nel vicino cimitero di Green Harbor, dove una semplice lapide blu sulla sua tomba dice “Hank 1920 – 2004 Don’t Try”. Non provare.
Furono anni di lunghe chiacchierate. Lui si alzava tardi, poi andava all’ippodromo, alle corse, e solo quando rientrava, di sera, si poteva andare a trovarlo. Mi raccontava che le femministe lo odiavano perché leggevano solo alcune delle cose che lui scriveva, e che poi si infuriavano perché non riuscivano ad andare avanti. Mi diceva anche che non gli piaceva la sinistra americana: «Sono solo dei bambocci ben nutriti che urlano slogan. Alla maggior parte di loro interessa soltanto trovarsi un lavoro, o la marijuana, o la cocaina, o andare in discoteca. La sinistra americana è una straordinaria stronzata fatta di pance bianche che vengono dal nulla». L’unica cosa davvero radicale in America è l’iperbole dei mass media, diceva quando gli contestavo le sue idee. Con Hank era una continua sfida: «Sì, sono molto egoista», diceva, «non voglio salvare il mondo né le balene». L’alcool, ammetteva, è una fuga, ma «è un dio piacevole, che ti permette di suicidarti, di risvegliarti e di ucciderti di nuovo».
Era difficile, Hank, e il vino non aiutava: nell’84 sposò Linda Lee, ero andata al loro matrimonio festeggiato in un ristorante di San Pedro dove lui s’era messo in testa il cappellino di Linda e brindava e ballava con i pochi amici invitati; poi la sera stessa, a casa, eravamo rimasti ancora in meno, e l’alcool riprese il sopravvento facendo riaffiorare la sua rabbia contro Linda, che lo amava ma che lui accusava di averlo sposato per interesse – ovviamente tutte cose in cui lui per primo non credeva, ma l’alcool svegliava la bestia.
L’intervista che è alla base del documentario venne registrata il 10 gennaio del 1981. Andai a casa sua con una troupe, tre persone per cinepresa, suono e luci. Quella che doveva essere una cosa al massimo di un paio d’ore si trasformò in una lunga serata in cui si continuò a bere (Hank amava il vino rosso, Petit Sirah soprattutto, ora che se lo poteva permettere dopo anni in cui aveva bevuto solo birra). A un certo punto lo convinsi perfino ad andare al piano di sopra, nella sua camera, dove scriveva sulla sua vecchia macchina che per scaramanzia non voleva mai cambiare, e poi sul balcone e poi nella sua camera da letto: mi sedetti e, quando notai quanto era duro il materasso, lui, finendo di fumare una sigaretta il cui mozzicone poi buttò regolarmente a terra, disse: «Non so, Linda ha portato questo maledetto materasso quando è venuta a vivere con me...».
Quella sera si aprì come raramente era successo, almeno a me, rivelando aspetti di sé che non immaginavo. Come la scelta di non fare più sesso fatta da lui e da Linda. E poi i suoi commenti sugli scrittori. Pochi si salvavano: Céline, Dostoevskij, D.H. Lawrence, Camus, e sopratutto John Fante, che aveva scoperto in una biblioteca di Los Angeles sfogliando fra le pagine dei contemporanei. Parlammo di corse di cavalli, di vitamine, della morte e a un certo punto del libro che stava scrivendo, che poi sarebbe diventato Panino al prosciutto ( Ham on Rye), pubblicato nel 1982: il libro più difficile, diceva, sulla sua infanzia brutta e violenta, il legame fra le cinghiate che regolarmente riceveva dal padre, un militare dell’esercito che era stato di base in Germania (dove Hank era nato), e la scrittura.
Participò a quella serata il suo fotografo ufficiale, Michael Montfort, morto anche lui più di dieci anni fa. Tantissime delle immagini e del sonoro erano rovinate, totalmente incomprensibili, mentre altre erano soltanto sgranate, disturbate, e quindi ancora utilizzabili. Solo quando mio figlio Matteo, oggi filmaker, ritrovando per caso quelle nove cassette Umatic dentro una scatola dimenticata per così tanti anni in garage, mi disse che avrebbe voluto farne un documentario, mi sono accorta con una certa sorpresa di quanto il nome e i libri di Charles Bukowski abbiano ancora una così ampia risonanza tra le giovani generazioni. Quanti giovani artisti, musicisti, fotografi, filmaker si dicono appassionati di Bukowski. Nel documentario le immagini originali si fondono a quelle nuove che Matteo e i suoi amici fotografi hanno girato di Los Angeles con una vecchia Super8, mentre la musica è stata composta da due diverse band californiane, Young The Giant e Travelers.
È un piccolo miracolo sentimentale quello che Bukowski, oggi come quarant’anni fa, continua a provocare. Quanto a me, quella serata con Hank nel gennaio dell’81 rimarrà per sempre. Credo di essere stata fortunata ad aver ritrovato quelle cassette prima che il tempo potesse distruggerle irreparabilmente. Soprattutto, credo di essere stata fortunata di poter condividere con altri la mia straordinaria serata con Charles Bukowski.