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 2016  agosto 21 Domenica calendario

Se il dibattito tra Sì e No, alle feste dell’Unità, viene visto più o meno come uno spettacolo di spogliarello a Raqqa

Di che cosa si discute, in questi giorni, tra le persone orientate a sinistra, e più in generale tra le persone interessate, anche superficialmente, alla politica? Si discute di immigrazione; di terrorismo; di economia; e si discute, piuttosto animatamente, del referendum sulle riforme costituzionali.
«E tu come voterai?» è una domanda che ognuno di noi, nelle chiacchiere con gli amici, in famiglia, sotto l’ombrellone, al lavoro, insomma ovunque la parola è collettiva, si è sentito rivolgere, e ha rivolto. Trattandosi di argomento classicamente divisivo (sì/no), ne seguono discussioni a volte appassionate, a volte meno, comunque vivaci. Dalle quali, senza bisogno dei sondaggi, si ricava che la gente di sinistra non ha, sulla questione, un’opinione univoca. Molti sono perplessi. Molti voteranno sì. Molti voteranno no.
Questa divisione riguarda un passaggio abbastanza straordinario del percorso politico repubblicano; ma è ampiamente ordinaria all’interno di una comunità che negli anni ha molto discusso e molto litigato: quasi su tutto. Sul compromesso storico, per esempio, e poi sul cambiamento del nome del partito, svolte almeno altrettanto epocali della riforma Boschi, l’allora popolo comunista animò discussioni di massa semplicemente epiche, irte di polemica e a volte bagnate di lacrime, ma del tutto fisiologiche a un modo di concepire la politica fondato – prima di tutto – sulla parola. Se ci fu un vizio, nella sinistra storica, fu la verbosità. Se ci fu un pregio, fu l’amore per il dibattito.
Alla luce di questa tradizione politica e di questa cultura, sbalordiscono l’impaccio e il nervosismo con il quale gli attuali stati maggiori della sinistra italiana si avviano ad affrontare la stagione delle feste dell’Unità, tradizionale apertura del nuovo anno politico, coincidente con l’anno scolastico. Si leggono e si sentono cose che è perfino rischioso riassumere, perché è come mettere il dito in una tagliola pronta a scattare; diciamo, grosso modo, che il dibattito tra Sì e No, che sarebbe sotto quei tendoni naturalissimo, direi fisiologico, organico alla natura stessa delle feste dell’Unità, viene visto più o meno come uno spettacolo di spogliarello a Raqqa. Dai fautori del Sì (ovvero dal gruppo dirigente di Renzi), che non concepiscono che “in casa nostra” possano radicare e formalizzarsi posizioni contrarie all’approvazione delle riforme costituzionali, complete di nuova legge elettorale. Così come dai portabandiera del No, che nella loro componente più vistosa, la gloriosa Associazione dei partigiani italiani, si ritrovano impigliati in penosissime vicende interne, con dirigenti congedati o congelati perché “fuori linea” (sono per il Sì), e impacciatissime interviste nelle quali si spaccia per normale prassi l’epurazione di dirigenti non abbastanza conformi ai dispacci del quartier generale.
Per non essere cerchiobottisti, va detto che la responsabilità più grave è quella dei gestori del Pd, che fanno l’inevitabile figura di chi scansa il dibattito come se scansarlo equivalesse (pensiero magico) ad azzerare un problema grosso come una casa: e cioè che l’elettorato “domestico”, quello di casa, quello di sinistra, è il primo a dovere essere convinto della bontà delle riforme e della giustezza del Sì’. Certo è penosissimo anche il sussiego con il quale la maggioranza dell’Anpi, e con essa molte vestali della Costituzione non distintesi, in passato, per la manutenzione della stessa, si arroccano attorno al No al punto da non concepire l’espressione pubblica del Sì. Alla faccia della libertà di coscienza e di opinione. Ma il bandolo della matassa è in mano, non c’è dubbio, alla classe dirigente del Pd.
Sono gli uomini di Renzi i primi a doversi rendere conto che il dibattito è acceso, è inevitabile, è reale. Non è eludibile. Le feste dell’Unità sono, per loro natura e da sempre, il luogo classico della discussione a sinistra: sul dibattito a oltranza e a prescindere, tetragono al frastuono invadente del ballo liscio e del gioco del tappo, si sono spese le energie (e le ironie) di generazioni di militanti. L’idea che qualcosa impedisca o sconsigli che in quei luoghi si discuta liberamente e ferocemente, come è sempre avvenuto, anche di queste riforme costituzionali, è desolante. E fa temere il peggio: cioè che una classe dirigente cresciuta nella comunicazione breve (il tweet, lo slogan secco e seducente, lo sprint polemico) non abbia più il fiato (e le palle, direbbe un allenatore di calcio) per discutere a tutto campo del proprio operato e delle proprie intenzioni.